L’esperienza che stiamo vivendo è talmente unica e sconvolgente che nessuno era preparato ad affrontarla; non lo sono i medici e gli operatori sanitari, non lo sono i malati e i loro familiari, non lo sono i genitori che devono occuparsi di figli che per certi versi non conoscono, non lo sono moltissime categorie professionali che hanno a che fare con un nemico nascosto e terribile. In quanto insegnante ho subito qualche giorno prima degli altri lo shock della quarantena: il decreto che ha chiuso le scuole come potenziali luoghi di contagio è uscito mercoledì 5 marzo, le ulteriori misure restrittive sono arrivate tre giorni dopo. Dal giovedì mattina, e per tutto il fine settimana, la scuola italiana ha dovuto ripensare se stessa, studiare strategie per non abbandonare i ragazzi, e scegliere il digitale come unica opzione per continuare a fare didattica. In tre giorni docenti che usavano saltuariamente la tecnologia per fare lezione hanno attrezzato studi, salotti, angoli della casa come postazioni per lo smartworking, e dal lunedì mattina, almeno nella scuola dove lavoro io, l’Istituto agrario Anzilotti, le lezioni sono riprese con una certa regolarità. Una scelta che ho subito condiviso molto è stata quella di rispettare gli orari che avevamo quando la scuola era aperta, anche se la durata delle video-lezioni, che sono più faticose da seguire per i ragazzi, è necessariamente più breve. Non è solo questione di organizzazione; in questo momento così delicato le vecchie abitudini sono per me, e forse anche per i ragazzi, rassicuranti. Sapere che a una certa ora ci vedremo e parleremo di Storia, o di Letteratura, è un salvagente a cui aggrapparsi per non affogare nella tristezza e nel malumore. I danni psicologici con cui dovremo fare i conti quando ci saremo lasciati alle spalle questa esperienza, che in un modo o nell’altro ci cambierà tutti, sono un qualcosa che è impossibile quantificare adesso. Meglio quindi non pensarci, per il momento. Io uso parte del tempo che ho a disposizione per parlare con loro, chiedere come stanno, sapere come affrontano le restrizioni dell’auto isolamento. Paradossalmente imparo di loro più cose adesso che quando siamo in classe: ho conosciuto i loro fratellini e le loro nonne, che attraversano il salotto con il cesto dei panni da stirare e si fermano a salutarmi, ho visto il cane, o il gatto, o il coniglio di famiglia, ho intravisto chitarre appoggiate alle librerie, skateboard, poster del cantante preferito. Ho guardato per la prima volta la loro vita, e mi capita di avere gli occhi lucidi, quando li saluto e spengo il pc, perché mi rendo conto di quanto mi manchino. Cerco di sentire spesso i miei colleghi, molti dei quali sono anche miei amici: è un modo per tenere vivi i contatti, e per sapere come gestiscono loro il lavoro. Il dubbio è sempre quello di dare troppe lezioni, o darne troppo poche, di correre troppo coi programmi, o non correre abbastanza. E c’è la preoccupazione per gli alunni che non si riesce a contattare sempre, che non si connettono alle videolezioni con regolarità adducendo scuse, che non hanno sempre disponibile un tablet o una rete wi-fi. Quelli che avevano già difficoltà nella classe vera in quella virtuale ne incontrano ancora di più, ed è anche più difficile aiutarli: questo per un insegnante che non vorrebbe lasciare nessuno indietro è doloroso. Ho detto ai miei che questa vicenda li ha proiettati prima del tempo all’Università, dove si studia per molte settimane un programma che verrà richiesto non si sa bene quando o come, e dove conta la capacità di organizzarsi. Solo che molti di loro hanno 14, 15 anni, e la capacità di organizzarsi a volte non ce l’hanno ancora. E non si può fargliene una colpa. I più grandi, invece, sono preoccupati per l’Esame di Stato; non abbiamo alcuna indicazione in merito, per il momento, e questo genera in loro una comprensibile ansia. Ma è un altro il sentimento predominante: la certezza che stanno perdendo un tempo che nessuno restituirà loro. Hanno dovuto rinunciare al rito dei cento giorni all’esame, con l’immancabile gita a Pisa o al mare. La fine del loro percorso di studi superiori, le ultime settimane da trascorrere coi compagni, e quel misto di eccitazione e malinconia che abbiamo vissuto tutti. L’epidemia li ha privati di tutto questo, e noi insegnanti possiamo fare ben poco per consolarli. Se non parlare con loro, e dedicare parte del tempo a farli sentire un po’ meno soli.