Torno da via della Torre, in visita all’anziana genitrice, e more solito mi trovo imbottigliato al semaforo del ponte del Duomo, congestionato da lavori di biblica durata. Di solito mi fisso su lavori di ingegneria nasale del conducente della vettura che mi affianca, ma stamani, le meccaniche celesti hanno voluto che il mio sguardo corresse altrove. In alto a destra per la precisione…e ciò che ho visto mi ha provocato una stretta al cuore. La forza dell’abitudine vedendo Cecco chiuso: “ma che è lunedì?”. Poi mi rinvengo, come si dice a Pescia, e realizzo che per quel posto magico, sono tanti anni che è sempre lunedì.

Ho avuto un moto di irrefrenabile malinconia. Confesso, ho fatto l’Università in quel luogo dell’anima, più fortunato dei miei genitori, che la frequentarono invece nell’altrettanto pesciatino Ateneo della Del Magro.

Fu una gloria cittadina, una vera istituzione. La vetrina che occhieggia come un orbita ormai vuota, mi appare come una lacerazione nel tessuto gastro-culturale della città, come una deiezione su una candida tovaglia di Fiandra.

Non è esistita ricorrenza che non abbia visto i miei concittadini “passare la piazza” come sentenziato dal Sainale, in virtù della favorevole prospettiva, essendo Lui selvaggina stanziale presso il dirimpettaio Bar Pult.

Non c’è stato turista in cerca di asilo che non sia stato colà orgogliosamente indirizzato, non c’è stata Epifania pubblica o privata che non abbia in quei locali trovato apoteosi e compimento. “Hai la tessera numero uno”, mi circuiva Cecchino, che parsimonioso per vocazione, teneva il conto degli accessi.

Godevo a mangiare da Cecco, il menù ripetitivo, “battuto quotidianamente a macchina”, ben si adattava alla mia riluttanza al cambiamento, cosa che però non mi impediva di sfottere Lui e Dino: “è un ciclostilato, cambiate solo la data“. I piatti, perfetti nella loro semplicità, amavo consumarli al rango del Centini, il Maestro per le acclarate doti di scultore… . Costui in tempi di bonaccia, lunatico come tutti gli artisti, era talora intrattabile ed in questi casi, dava tutti inopinatamente del Lei. Una volta mentre aspettavo, mi misi a leggere ostentatamente il giornale. Come una furia me lo strappò di mano: “Guardi che in tempo di guerra sono stato quindici giorni senza mangiare. Lei può attendere quindici minuti“.

Diventai amico di tutti, Asmara che mi buttò sul tavolo una sportata di gusci di piselli, per una mia provocatoria insinuazione circa l’uso di prodotti surgelati. E poi Ruffo, Marco, Franco, Mariano, il Magnani, chef dei primi piatti, e Adelmo, chef a tutto campo.

Una mattina, con fare cospiratorio, ricevetti una telefonata: “Angiolino ha fatto le bracioline ripiene“, che raramente comparivano sul menù, rubricate come “valigette di manzo”. Fu una sorta di rito iniziatico, ed orgoglioso per la convocazione cominciai sempre più spesso a mangiare con il personale. Consequenziale il passo successivo: venni cooptato alle cene del lunedì, a ristorante chiuso, tanto elitarie da richiedere per l’ingresso quasi una parola di passo. Furono simposi ambiti, che a seguito di passaparola, riunirono intorno allo stesso tavolo un campionario di variegata umanità, con categorie sovente inconciliabili, ma unite da portate fuori menù come le polpettine nel sugo, fritto vegetale, timballo di maccheroni.

Durante un incipit costituito da Pecorino del Pastore e Trionfo di Pinzimonio, memorabile fu la frase con cui Acquanera apostrofò l’Avvocato Baldaccini, intento a smembrare un’intera cesta di finocchi, onde coglierne le parti più tenere ed intingerle nell’olio verdolino. “Bada Capo, che i grumolini ci piaciano anche a noi“. Fu un atto rivoluzionario, che ribaltò le gerarchie accademiche e sociali, tanto che a me si affacciò alla mente la consapevole e virile immagine di “Quarto Stato”, celebre dipinto di Pellizza da Volpedo. (I due protagonisti di quel memorabile siparietto ci hanno lasciato, ma ritengo di non far loro torto narrando questo gustoso episodio conviviale).

Sale la nostalgia, mi manca quel posto, mi mancano quelle persone, come mi mancano quei piatti, che scandivano le stagioni. L’estate con il minestrone di riso semifreddo, vitel tonné e parmigiana di melanzane; l’inverno con cannelloni e pollo al mattone; la primavera con cima alla genovese, ossobuco e tagliolini ai piselli; l’autunno con insalata di porcini e spaghetti agli ovoli.

Addio Cecco, addio giovinezza…