Certi episodi della vita hanno un inizio improvviso, uno sviluppo interessante e, in fondo, lasciano una scia di emozioni, impressioni e curiosità che mai ti saresti aspettato. Oggi, la vita che corre non ti dà la possibilità di riflettere ed incamerare tutto ciò che vedi e senti; è una continua fuga in avanti ch ti costringe a prendere appunti superficiali, ma non fa per me. Io frequento, come molti coetanei, altri sentieri anche perché le strade stanno diventando sempre più pericolose, e sconnesse. Sentieri che non richiedono grande sforzo né fatica: solo una piccola, grande passioncella che si chiama curiosità mista nel rimanere a sé stesso.

Da molto tempo ho sempre cercato di coniugare i viaggi, le gite, l’escursioni con gli approfondimenti del caso; questo meccanismo mi permette non solo di conoscere ma di rendermi conto delle qualità che hanno tutte le località, e di non disperdermi nel gregge del turismo di massa, che oggi deve fast fast fast, un aggettivo ricorrente nella Firenze viola. Certo, bisogna lettere, sfogliare libri, prendere qualche appunto per sostenere la memoria. Insomma, un piccolo zainetto culturale che non ha peso, ma che rimarrà un caro, sincero compagno di viaggio. Con l’attenzione di ricordare che, più approfondisci le conoscenze, più grande diventa l’enormità del tuo non sapere. Un esercizio che è molto difficile da gestire, ma che sei quasi obbligato ad affrontare se vuoi ridurre la differenza tra il “più sai, meno sai”.

Adriano, un carissimo, fraterno amico, poco tempo fa mi chiese se avessi voluto fargli da testimone per il suo matrimonio con la Laura, conosciuta – così mi hanno detto – attraverso i “social”, che, dopo un po’ di rodaggio, avevano deciso di convolare a nozze, ufficialmente. D’acchito, rimasi un po’ stupito ma, subito dopo, ne fui più che felice, tanto che accettai con entusiasmo quel ruolo impegnativo. Lo feci anche perché vidi in lui la giusta determinazione di coronare un affetto verso una ragazza che lo condivideva sinceramente, perché la sua vita non sempre è stata facile: tante difficoltà, salite, amarezze e delusioni nei confronti di poche gioie. Era felice, e questo mi faceva molto piacere perché, personalmente – poter rendere lieto un amico, un compagno, riempie anche me di tanta contentezza. Laura non era (non è) toscana; addirittura, proveniente dalla Giulia, da Trieste: se il destino è questo, ben venga.

Anche per lei, una bella scelta; una perdita grave nel passato, che si sarebbe in parte marginata con questa sua scelta. Insomma, in breve, tutto avvenne senza inciampi, con la presenza delle rispettive mamme: Vera e Rita. Poi, il tempo va, con mia madre che invecchiava, benino, ma il cui accudimento richiedeva sempre più impegno, più attenzione, e Adri e Laura non si sono risparmiati nel darci una mano, grazie anche al fatto di essere quasi vicini di casa, ed al grande, genuino attaccamento che ci hanno dimostrato. Tutto ha una fine su questa terra. Gli ultimi mesi di vita di mamma sono stati i più impegnativi, i più tumultuosi anche per altre scomparse. Si perdono i contatti; si vive in modo stralunato; si confonde il giorno con la notte. Si soffre, in tanti modi.

Infine, la quieta dopo la tempesta. Il tentativo di riprendere una vita normale, o provare di farlo. Gli amici, encomiabili, vicinissimi, presenti, che ti allargano il cuore e ti confortano ben oltre l’immaginabile. La vita va avanti, comunque sia, e tanti sono i modi per riaffrontarla. Fu proprio in questo periodo di vuoto esistenziale che Laura e Adri ci convinsero di trascorrere con loro qualche giorno a Trieste, dalla mamma di lei, Rita, dove avrebbero trascorso una quindicina di giorni. Trieste? Le mie conoscenze sulla città erano elementari e quindi superficiali. Lì per lì, tentennammo, soprattutto io; poi Bruna decise: usciamo di casa, forza! Così, mi ripromisi di tentare di prendere confidenza con la città giuliana, ma non trovai nessun testo che potesse darmi una mano per conoscere almeno i suoi piccoli grandi tesori. Da subito, mi fu chiaro che la sua posizione nello stivale era marginale, tanto da scoprirlo appena montati sul treno.

Pescia-Prato; Prato-Trieste tutto d’un fiato, lungo, perché s’impiegano circa 5 ore e mezzo per arrivare alla mèta. Una bella tirata, e nemmeno tanto comoda; in macchina, la si può fare in quattro ore, ma evitammo di usarla per tanti motivi. Arrivo a buio; gli amici pronti; a casa della Rita; quasi al colmo di una collina; a tavola, ed ero un po’ stordito, confuso, incapace di rendermi conto dov’ero, anche se l’appartamento sprigionava calore da tutti gli angoli, e l’accoglienza fu più che familiare: coinvolgente. Una necessaria dormita; il solito mio tè, la partenza verso il basso per scoprire la città. Verso il basso perché lo sviluppo di Trieste ha, in pratica, occupato i fianchi delle due colline che la circondano e, dall’alto dell’appartamento, la vista è quasi totale, e piacevole.

Fu così che incontrai, su di un dèpliant della città, il nome di Tergeste. Tergeste? Mai sentito!. Scoprii l’arcano a casa quando, su di un libro della sua storia prestatomi dalla Rita, si citava Tergeste come nome antico di Trieste. La sua origine viene fatta risalire alle parole “Terg”=mercato, e “Geste”=villaggio carnico (forse). In più, la leggenda (che non è storia), narra che Strabone, storico e geografo greco, nato circa nel 60 a.C., abbia proprio qui immaginato una sosta degli Argonauti perché Trieste rimaneva, e rimane, un incrocio rispetto a tre modi diversi: l’italico, lo slavo e il germanico, con un pizzico di vicino oriente. Posizione vantaggiosa, ma anche con molti e prolungati disagi che ancora lasciano nubi grigiastre sulla città, come ha scritto Gabrio de Szombathely nella sua “Storia di Trieste”.

Bene. Sotto la sapiente guida di Laura, siamo entrati in contatto visivo e materiale dei principali monumenti ed edifici tergestini. La magnifica piazza dell’Unità d’Italia, oggi; ieri Piazza Grande, centro pulsante della città, con la curiosità del monumento “mobile” di Carlo VI (credo), in quanto è stato spostato più volte negli anni, e perché non lo sapeva neanche lei, con il suo Municipio. Il viale a mare: una circolazione velocissima, e quindi pericolosa per i pedoni; mi diceva lei, però, che i grossi guai erano più in alto, con strade tortuose che non sempre sono affrontate con la dovuta cautela. Il Castello di Miramare: una grossa sorpresa, per me, perché ciò che conoscevo di lui era dovuto alle scarse letture ed alla televisione. Tutto sbagliato! Non è un castello come lo intendiamo noi, ma un bel palazzo, ed è all’altezza del mare, non su di una altura! Tanto bello che da solo meriterebbe più visite, e con una storia ottocentesca che la si vive stanza dopo stanza.

E gia la strada che porta a quello è come una lunga passeggiata al mare; ma, attenzione!, qui non c’è sabbia: scogli e cemento. Al mare, d’estate, con un telo disteso su questo, non come da noi. Poi, gli edifici più importanti, come i palazzi, sono in travertino, molto resistente agli agenti atmosferici, e con la caratteristica che, invecchiando, si fanno sempre più bianchi. Qui, l’impronta asburgica è sempre evidente e, con la caduta dell’impero (1918), come una magìa, i palazzi pubblici hanno cambiato nome, come vuole l’italica regola, ma la loro bellezza è rimasta. Un bellissimo museo d’arte moderna, “Pasquale Revoltella”, un barone che è stato tra i finanziatori del taglio del canale di Suez. Arricchitosi,ha lasciato alla città il suo palazzo e l’immenso patrimonio artistico, distribuito su sei piani. Da visitare assolutamente.

Ancora. Un pranzo insieme sul crinale della collina con vista città. Qui, la mia scoperta del Carso e delle sue rocce, crude e nude: impressionante. Un salto in Slovenia per fare il pieno (1,2 il litro), e l’impatto con una foiba, quella di Basovizza. La foiba è un crepaccio che si è aperto in un dolina, formando una conca che poi gli agenti atmosferici, erodendosi, al centro, danno luogo a fenditure e crepacci profondi decine di metri, anche 150. Nel 1943 e nel 1945, queste furono protagoniste di pagine nerissime di Storia italiana perché usate per “inghiottire” i nemici, vivi e morti, con lo scopo di farne scomparire il corpo e la memoria. Mai gli animali, le bestie come le chiamiamo noi, si sono comportati così: non bastava torturare, fucilare, impiccare, incenerire il nemico? No!, e quello che ho visto ne è la prova, e poi, a torto o a ragione, non sta a me deciderlo: la Storia farà la sua corsa, lenta e veloce, e (forse) la verità verrà a galla.

Certo, in uno Stato come il nostro, dove non riusciamo a condividere il recente passato, sarà dura. Di sicuro, questa visita mi ha profondamente scosso, e ho avuto l’impressione che qualcosa d’impuro, di oscuro, ancora aleggi su questa città, compreso l’ultimo sguardo, veloce, alla “risiera” di S. Sabba. La gitarella stava finendo. La mattina dopo, un salto su, a S. Giusto, la cattedrale, sul cucuzzolo di una collina, con davanti resti romani, alla quale si dette solo un’occhiata perché era in corsa una funzione. Da rivedere, ovviamente,ma quando? Un ciao frettoloso a Rita per la meravigliosa ospitalità, e via con gli amici alla stazione. La nostra “quattro giorni” stava finendo, e come sempre capita in queste occasioni, la testa si affollava di tutto quanto avevamo visto di una città ieri sconosciuta. Il suo essere marginale, qui, si nota chiaramente: vitale per il vecchio Impero, semisconosciuta per l’Italia di oggi, eccetto per la Barcolana.

A proposito: e la famosa bora? Già, la bora, che identifica proprio i tergestini. Niente. Sole, e un po’ di fresco, eccetto la seconda mattina. Adri e Laura, conoscendo il luogo, e conoscendo me, mi trasformarono in un esquimese, con sciarpe ed accessori vari. Usciti, una leggera bava (per loro) di vento; un freddo cane, per me! così bardato, mi fotografarono, e le immagini che ne sono venute fuori, le ho sciupate tutte. Era una bava, solo una bava. Non voglio immaginare cosa sarebbe stato se quella si fosse sfogata: ecco perché i corrimano lungo certe strade. Rientrato a casa, a poco a poco mi scongelai. Ecco, questo è l’ultimo ricordo di Trieste. Sul treno, appena mosso, un saluto d’obbligo, ricopiando quello lasciato scritto dai soldati neozelandesi che avevano amministrato la città dal 12 giugno 1945 al 26 ottobre 1954 – da allora, finalmente e definitivamente italiana – sul fianco di un camion militare: “Good byt, Trieste”. Sarà così?