Lo scorso aprile, su queste colonne, avevo cercato di dare una chiave di lettura della situazione che sapesse rileggerla entro una visione pienamente cristiana; riprendere l’argomento in questo tempo di attesa del Natale mi sembra non solo utile ma anche doveroso. Si, perché il Natale è la festa cristiana maggiormente secolarizzata: le pubblicità, ormai, la identificano con la festa di Babbo Natale, personaggio che, persa ogni attinenza col San Nicola dei nostri nonni, è diventato una sorta di commesso viaggiatore porta regali. Che il Natale sia il giorno nel quale si ricorda la nascita – appunto –  di Gesù di Nazaret, che per la fede cristiana è Dio fatto Uomo, non vi è traccia in nessun luogo. Perciò il grido di molti “salviamo il Natale” non è l’invocazione di fedeli devoti che desiderano preservare le radici della propria fede ma è, per lo più, l’appello disperato di tante categorie commerciali che, messe in ginocchio dalla pandemia, desiderano avere qualche “ristoro” dalle scelte del governo, che permetta loro di non abbassare in modo definitivo le saracinesche.

È un grido pienamente legittimo, certamente, al quale mi sento solidale: ma ciò che si vuole salvare è un natale con la “n” minuscola, un natale altro, non certo quello cristiano. Resta da vedere se i cristiani si ricordano più cosa sia il Natale con la “n” maiuscola: mi permetto di dubitarne. Il fatto che la notte di Natale le chiese si riempiano non mi ha mai consolato più di tanto: è solo il residuo di un certo sentimentalismo che questa festa porta , tradizionalmente, con sé. Non per niente ci si scaglia contro la decisione, più che probabile, di anticipare la “Messa di mezzanotte”: per quale motivo? Ma perché la “Messa di Mezzanotte” è la quintessenza di una religiosità tradizionale, quella di chi pensa a sé come un buon cristiano perché va alla “Messa di mezzanotte”. A me personalmente pare molto, ma molto più grave, che si arrivi a imporre un numero massimo di familiari al pranzo natalizio (sei!) che, paradossalmente, sembra, ancora una volta, penalizzare tutte le famiglie che, generosamente, hanno scelto di fare figli: anche un incompetente capisce che se due genitori hanno un solo figlio e i nonni sono quattro, il totale fa sette!

Ma torniamo a noi: “A Natale puoi fare quello che non puoi fare mai…” canta una nota pubblicità. E lo canta, immancabilmente, ogni anno: perché mai, poi, si possa fare a Natale una cosa che non si può fare gli altri giorni dell’anno non è dato di capire. Perché si deve essere più buoni, gentili, disponibili, caritatevoli, sorridenti solo quel giorno e non sempre? Ma, tant’è, questa è la vulgata che ci viene proposta e nella quale tutti ci coccoliamo. Ma il Natale, quello con la “N” maiuscola, è un’altra cosa. È quel Natale lì che io aspetto: ma non lo aspetto solo in questo 2020, che molti definiscono “maledetto” (e che io, invece, ritengo assolutamente “benedetto”, per le opportunità uniche che ci concede di ripensare noi stessi e il nostro modo di vivere).

Io aspetto un Natale dove ci si ricordi che i doni scambiati vicendevolmente sono segno che tutte le nostre vite sono dono e che, soprattutto, questo è il giorno nel quale riceviamo il dono per eccellenza, Gesù, il Figlio amato del Padre venuto a soccorrere la povertà della nostra natura umana e a divinizzarci. Aspetto un Natale che si celebri tutti i giorni dell’anno, nella vita vissuta non solo in funzione di sé ma attenta all’altro, nello sguardo capace di levarsi verso l’orizzonte di Dio, nelle mani tese a dare e a ricevere. Un Natale del quale, spente le luci artificiali degli addobbi, si sappia alzare lo sguardo al cielo per scorgervi ancora una volta quella stella che guidò da lontano i Santi Magi fino a portarli davanti a un bambino uguale a tutti gli altri bambini ma portatore di una novità inaudita. Questo è il Natale che aspetto, che tutti -spero- aspettiamo e che nessuna limitazione potrà mai toglierci.