Sin dal suo ingresso nella storia, la psicologia ha affascinato un’enorme molteplicità di persone. Come ogni scienza, la sua evoluzione è costante negli anni. Una continua metamorfosi. Ognuno di noi, nel corso della propria vita, ha pensato più o meno seriamente di volersi rivolgere ad uno psicologo per i più svariati motivi.

Sarà, quindi, per questo fascino dell’idea di aiutare gli altri, oppure per pura passione verso la materia, che il nostro protagonista desiderava più di ogni altra cosa potersi aprire uno studio tutto suo, di quelli classici: lettino in pelle rossa dove far accomodare il cliente di turno, con alle spalle una libreria in legno pregiato, contenente un miscuglio tra testi universitari e comuni volumi d’approfondimento. Di fronte all’entrata, al centro della sala, la sua scrivania, anch’essa di un raffinato legname, con sopra la targhetta riportante il suo cognome, preceduto dalla sigla “Dott.” a regalargli quella sensazione di realizzazione.

A completare il tutto, un tappeto con differenti sfumature ma a prevalenza calda, per non sgarrare dalla tonalità del parquet; alle pareti qualche quadro appeso, in una maniacale organizzazione che prevedesse al centro della figura ottenuta dalla disposizione dei dipinti la cornice al cui interno era riposta la tanto ambiata laurea. Poco dopo il termine degli studi, l’ormai neo-dottore poté iniziare ad esercitare la sua amata professione. Iniziò, grazie a qualche conoscenza, a farsi un nome prima ed una clientela poi, il tutto amplificato dalla sua indole estroversa, che gli permetteva di portare le persone dalla sua parte con relativa facilità. Una volta raggiunta la cifra necessaria a pagare affitto ed arredi, il suo ufficio divenne realtà. Finalmente era sulla mappa. Ognuno sapeva dove trovarlo e cosa potesse offrire lui.

Fu così che un giorno, di prima mattina, passò a trovarlo un uomo molto elegante. Bussò delicatamente alla porta e, dopo essere entrato, si tolse di dosso il cappotto, inserendo con cura i guanti all’interno della tasca e appendendo il tutto all’attaccapanni. Possedeva un certo portamento, condito da un’accuratezza sopraffina nel vestirsi. Abbinava ad un pantalone color sabbia una giacca scura, indossata al di sopra della camicia bianca. Ma la cosa che più rapiva l’attenzione erano gli accessori: un orologio dal cinturino nero, il fermacravatta con incise sopra le sue iniziali, una collana in oro con la croce cristiana come pendente e la classica e, se paragonata al resto, banale Fede. Una volta accomodatosi sulla sedia, strinse vigorosamente la mano al proprio interlocutore, lo psicologo, e si presentò in modo discreto ma accurato. Colui che gli porse la mano, subito dopo la stretta, non poté esimersi dal notare del sangue presente sull’arto che gli veniva teso.

Ciò scatenò in lui quell’istinto primordiale che domina da secoli la mente umana: la curiosità. Chiese allora se l’ospite avesse delle ferite, ma l’interpellato rispose che il liquido viscoso non proveniva da lui, bensì da qualcun altro. Dominato dalla sete di conoscenza, il laureato domandò cosa fosse accaduto. Seguì un momento di silenzio. Era come se il cliente dovesse scegliere attentamente cosa raccontare e come raccontarlo. Infine, l’uomo decise che, forse, sarebbe stato meglio introdurre in modo velato la faccenda, focalizzandosi sull’anello che aveva al dito. Iniziò, quindi, il proprio racconto, articolandolo sul nascere su di una riflessione fatta con sua moglie.

La coppia, dopo una romantica cena a base di pesce e buon vino, si era accomodata in salotto, dove aveva continuato a sorseggiare alcolici di varie marche e tipologie. Ad accendere la miccia fu lei, che espose il suo pensiero secondo il quale, al giorno d’oggi, tutti si sentono in diritto di fare tutto, aggrappandosi alla sottile motivazione della realizzazione personale.

I coniugi erano benestanti cittadini, amanti dell’arte in ogni sua forma. Adoravano qualsiasi espressione del genio umano. Ma più passavano gli anni, più si accorgevano di un fatto sconcertante: l’arte non era più esclusiva. Chiunque poteva mettere insieme un centinaio di pagine per essere scrittore; tutti potevano scarabocchiare su di un foglio e autoproclamarsi pittori; ognuno poteva intonare qualche frase a ritmo divenendo automaticamente cantante. Il ribrezzo che provavano era tantissimo. Era come essere al lago, dove tutte le anatre starnazzano. Così come è diritto intrinseco delle papere schiamazzare, lo è altrettanto quello di ogni umano generare arte. Solo che nella pluralità e nella confusione totale dei versi resta difficile notare un raffinato e piacevole canto. E poi quella maledetta giustificazione! Sì, perché per loro era una scusa e non una logica argomentazione. D’altronde, è così facile nascondersi dietro i propri privilegi. Solo che, all’ombra di questi, giacciono i nostri doveri. E’ come se i primi eclissassero i secondi. In passato non era così: la luce spendente dei nostri obblighi valorizzava ancora di più la bellezza dei nostri benefici.

Ma dobbiamo arrivare al momento in cui la situazione era degenerata, dato che, fino ad ora, siamo rimasti fermi ad un’idea più o meno condivisibile. Poco a poco, le bevande ingerite avevano iniziato ad offuscare le lucide menti degli sposini, che volevano agire in tutti i modi per ridurre quel fastidioso ed immaginario chiasso. Ecco, dunque, che era venuto fuori un nome, quello di uomo tanto arrogante quanto preda di quel meccanismo di convinzione nelle proprie capacità creative. Non faceva del male a nessuno, ma si vantava continuamente di aver sverniciato una tela, ricreando, con una lettura più al passo con i tempi, un famoso quadro di un altrettanto noto artista del passato, esponendola al centro del suo soggiorno, come fosse una reliquia. Come se non bastasse, ad alzare il livello di disdegno dei due nei confronti del presuntuoso vicino, vi era il fatto che quest’ultimo aveva ricamato sopra la propria creazione un’ingente quantità di storie palesemente inventate, narrando di ipotetiche offerte da parte di famigerati musei delle capitali europee, che lui aveva prontamente declinato, non ritenendo nessuna proposta all’altezza del valore inestimabile del proprio operato.

Fatto sta che i due si guardarono e le loro immaginazioni furono irradiate dalla medesima illuminazione: fingere una visita come tante a casa del confinante per poi rubare il dipinto. Una volta pronti, i futuri ladri si fermarono un istante per osservarsi davanti allo specchio, di fianco alla porta. Nei loro occhi brillava uno strano fuoco, quasi fossero euforicamente convinti di ciò che stavano per compiere. Come se si sentissero una sorta di paladini del giusto, eliminando una piccola macchia da quel cencio sporco che era divenuto il mondo. E poi, pensavano ad un’utopia assoluta: rimuovere tutte le chiazze, come per ripulire l’umanità dai propri peccati. Ma non si fecero trasportare più di tanto dalle fantasie. Non vedevano l’ora di agire. Una volta davanti al portone, suonarono il campanello e l’imminente derubato li fece accomodare, offrendo loro qualcosa da mettere sotto i denti, che però venne prontamente rifiutato.

Il piano era semplice ed essenziale: convinti del fatto che il padrone di casa avesse già iniziato a degustare qualche liquore, sua abitudine serale, la ragazza non avrebbe dovuto far altro che incitare questo comportamento, mentre il suo amato, in modo relativamente furtivo, avrebbe provveduto a caricare l’oggetto del crimine in auto. Tutto proseguiva secondo il programma. L’atmosfera era condita da una soffusa musica proveniente dal giradischi e, quando la canzone arrivò al suo ipotetico apice, il narratore della vicenda, senza avere la benché più minima esitazione, agì. Una volta giunto sulla soglia di casa, un urlo lo congelò. Era l’inquilino dell’abitazione, che, armato di coltello, si stava avvicinando minacciosamente, blaterando qualche frase offensiva, con la tipica lingua impastata di chi ha alzato troppo il gomito. Il rapinatore aguzzò l’udito, visto che si trovava ancora con le spalle rivolte al suo nemico, nel tentativo di captare il momento in cui agire. Venne travolto dal fiume in piena dei dubbi. Se avesse sbagliato anche solo di un istante a girarsi, poteva rimanere ferito o, peggio ancora, giacere per terra. E mentre nella sua testa venivano prodotti infiniti scenari, il rumore di un listello del pavimento lo fece scattare istintivamente. Si voltò fulmineo, e, con la forza e la brutalità dell’istinto della sopravvivenza, colpì in testa il rivale con il movente del saccheggio.

Il ferito si accasciò a terra, portando una mano alla zona colpita. Notò immediatamente il sanguinamento, visto che era stata lacerata con lo spigolo della cornice. La ferita era profonda, il sangue perso molto. L’artefice del tutto rimase lì impalato, quasi incredulo della propria azione, e nemmeno quando la vittima alzò la mano in segno di richiesta di aiuto, lui si smosse. Guardò, in modo freddo ed indifferente gli ultimi istanti di vita di uomo, realizzando solo in quel momento quanto fosse labile il confine tra legalità e criminalità. Soprattutto si rese conto di come, una volta attraversato il confine, fosse impossibile tornare indietro.

Concluse allora la narrazione, precisando che i fatti erano accaduti la notte appena trascorsa e che da lì a breve sarebbe stato rinvenuto il cadavere. Quindi, il carnefice dichiarò di essersi recato lì per imparare a mentire, evitando, pertanto, di accusarsi in modo automatico, sia in modo conscio che inconscio. Voleva conoscere ogni dettaglio della menzogna, sia verbale che fisica.

Lo studioso si trovò quindi in enorme difficoltà. Doveva riavvolgere il nastro, per capire a fondo la questione ed elaborare il tutto. Chiese allora al proprio cliente qualche momento di riflessione solitaria. Si recò, perciò, nella stanza limitrofa, dove  c’erano un camino acceso, contornato da altri scaffali riempiti con i più svariati tomi, oltre che altri affreschi. Facendo rapidamente il punto della situazione, realizzò che era di fronte ad uno spasimante dell’arte che era arrivato ad uccidere per ciò in cui credeva. Sentiva crescere in sé un dissidio interiore con il quale non si era mai misurato. Accese un sigaro, si sedette sulla poltrona e eliminò i freni inibitori dei pensieri, lasciandoli quindi liberi di scorrazzare nella prateria della propria mente, come fossero cavalli selvatici. Era combattuto tra il denunciare il tutto alla polizia, dimostrandosi  un cittadino modello e facendo la scelta più moralmente corretta, e l’assecondare la richiesta del suo bisognoso possibile assistito.

Di primo acchito, ovviamente, la scelta era semplice: telefono in mano, numero della centrale delle forze dell’ordine e situazione risolta. Ma si concesse il privilegio di ascoltare anche l’altra controparte. Trovava interessante il fatto di immaginarsi il proprio ufficio arredato con copie di poco valore dei quadri che aveva acquistato. In un certo senso, lui non era poi molto differente dal signore nell’altra stanza. Anche lui amava il talento puro. Tutto, con uno sguardo più attento, è arte. La sedia su cui era seduto. Non è da tutti realizzarla con cotanta attenzione e precisione. La sua cattedra. I dettagli che vi sono intarsiati sopra richiedono man ferma e dimestichezza nell’uso degli attrezzi. I libri riposti nelle mensole. Erano prodotti da geniali e scrupolosi architetti della lingua. Il palazzo dove si trovava. La scelta del colore, della forma delle finestre, del pomello della porta, il numero di scalini, l’altezza del soffitto. Tutto era arte, perché vi era dietro un pensiero logico e ben curato, che non poteva nascere al di fuori dei soggetti che hanno poi dato espressione del loro genio. E, a pensarci bene, chi in sé per sé non è arte? Ditemi un essere umano che non possieda particolarità uniche ed inimitabili. La vera essenza del bello è questa: l’imperfezione.

All’analista piaceva pensare che il primo scultore, il primo pittore, il primo scrittore, il primo creatore di arte si fosse ispirato a qualcosa di totalmente imperfetto. Perché le certezze della vita, alla fine, sono solo due: la morte, che prima o poi raggiunge tutti, e la presenza di difetti in ognuno. Ma in fin dei conti, non è qui il vero senso della nostra esistenza? Se ciascuno di noi sapesse della propria immortalità e della propria più totale perfezione, non proverebbe altro che un senso di disagio. Già adesso, consapevoli del fatto che, prima o poi, la nostra corsa finirà, buttiamo come polvere al vento le giornate. Non oso pensare cosa potremmo fare con una quantità illimitata di tempo a disposizione.

Il professionista arrivò, dunque, ad un accenno di decisione: chiunque potrebbe spacciarsi per creatore di talento limitandosi a copiare l’inventiva altrui. E questo, forse, è il peggior peccato, perché così facendo priviamo noi stessi della nostra unicità. Cercare di essere o fare ciò che è già stato fatto, solo per la mania di fama, non ci aiuterà a sentire realizzati. Anzi, al contrario, è solo l’inizio di un tunnel che ci conduce verso l’inesorabile perdita di noi stessi. Il nostro personaggio iniziò quindi ad annegare nel mare dei propri pensieri, nel quale i fiumi delle due opzioni convergevano. D’un tratto, si calmò. Si alzò. Doveva indirizzarsi verso la porta che avrebbe testimoniato la sua presa di posizione. Da una parte, l’uscita sul retro del condominio, da cui evadere per dirigersi ad avvertire gli agenti; dall’altra, la soglia per tornare a colloquiare con il visitatore.

Tentennò un’ultima volta, sorridendo, perché sapeva benissimo che la sua vocazione professionale avrebbe avuto nuovamente la meglio.