Cento anni fa, il 21 gennaio 1921 nasceva il Partito Comunista d’Italia.
In questa ricorrenza abbiamo intervistato il senatore Vannino Chiti, già vice-presidente del Senato, che ci ha rimesso le sue considerazioni ricche di contenuti.

D.Quali furono gli elementi di impostazione politico-filosofica che determinarono la nascita del Partito Comunista d’Italia?
R.Il partito comunista d’Italia nacque sull’onda delle speranze suscitate dalla rivoluzione d’ottobre in Russia. Le notizie che arrivavano, confuse, frammentate – non c’erano le tecnologie informatiche di oggi e la Russia era isolata (trasmettevano il messaggio che gli operai e i contadini avevano preso il potere). Il sogno si era realizzato. In Italia si viveva il difficile dopoguerra: ritorno dei combattenti, difficile inserimento nel lavoro, crisi economica profonda, epidemia -si chiamava spagnola- che infuriava da noi e nel mondo. L’Italia era una nazione profondamente divisa: tra chi aveva voluto la guerra e chi vi si era opposto, tra socialisti e cattolici, oltre che tra ceti popolari e classi imprenditoriali. Sembrava possibile, anzi necessario fare come in Russia. Vi erano infine contrapposizioni nette all’interno del partito socialista: 5 anni prima Mussolini era direttore dell’Avanti, ora il più fiero nemico, fondatore dei fasci da combattimento; la guida del partito era della corrente massimalista, che agitava l’obiettivo della rivoluzione, suscitando paure, ed era incapace in concreto anche di guidare e sostenere lotte operaie e sindacali, come manifestamente si evidenziò nella vicenda dell’occupazione delle fabbriche; vi erano poi i Riformisti, come Turati, che controllavano i gruppi parlamentari ma erano minoranza mal sopportata dentro il partito. Insomma il partito socialista agitava l’obiettivo della rivoluzione come propaganda inconcludente e impraticabile, e non si faceva carico della responsabilità di una politica riformista, che concretamente praticava. In questa situazione si ebbero non una, ma due scissioni: nel 1921 quella comunista con a capo Bordiga, nel 1922 quella dei riformisti, guidati da Turati e Matteotti.

D.Quali furono le tappe fondamentali delle trasformazioni del Partito Comunista Italiano nella sua storia?
R.A mio giudizio i momenti più significativi nella storia dei comunisti italiani furono la nomina di Antonio Gramsci a segretario del partito nel 1924 e con lui il congresso di Lione nel 1926, già pressoché ridotti alla clandestinità per l’avvento della dittatura fascista. Pochi anni dopo Gramsci sarà arrestato e in carcere porterà a compimento una straordinaria riflessione intellettuale sulle specificità dell’Italia e dell’Occidente, sulla necessità che la trasformazione socialista della società seguisse vie diverse rispetto alla Russia. Per semplificare non tanto la forza delle armi ma quella delle idee, l’egemonia dei valori e della cultura, la conquista del consenso. I Quaderni del Carcere, che la cognata riuscì a prendere al momento della sua morte, e nel dopoguerra a fare avere al PCI, a Togliatti, sono di un valore teorico che va ben oltre i confini di un partito. Tanto che oggi Gramsci è studiato e approfondito nel mondo, forse in questo momento meno in Italia. Mi permetta una parentesi: accanto ai Quaderni, le Lettere dal carcere, un commovente messaggio di umanità, di un uomo fisicamente fragile, malato, che strappa ai direttori del carcere la possibilità di avere libri e carta, per studiare e scrivere, lasciandoci un patrimonio teorico e di affetti che dovrebbe essere conosciuto in quanto tale. Più brevemente il resto: il 1944 con il ritorno in Italia di Togliatti, la svolta di Salerno, l’unità delle forze democratiche e antifasciste per contribuire a sconfiggere fascismo e nazismo, rinviando a dopo la liberazione dell’Italia la questione della scelta istituzionale tra Repubblica e Monarchia. La concezione e la costruzione del partito nuovo, all’interno della Repubblica e della Costituzione, scelte da tutti gli italiani per la prima volta con il suffragio universale, non solo gli uomini ma anche le donne. La via italiana al socialismo si collocherà in questo quadro istituzionale e politico. Mi consenta un’altra parentesi: oggi nella demolizione indiscriminata di tutta la fase che definiamo prima Repubblica, si sottovaluta il contributo dato al paese dai partiti, soprattutto quelli di massa, per fare entrare nel DNA degli italiani, nati e vissuti nella dittatura, la democrazia. Nei loro contrasti ideologici, nelle loro diversità e nei duri scontri politici, questa fu un’opera preziosa e comune che realizzarono DC, PCI e PSI. Un terzo momento di innovazione profonda fu rappresentato da Enrico Berlinguer: la definizione della democrazia come valore universale, senza la quale non può esistere una società giusta e dunque criterio di valutazione anche per le società che si dicevano socialiste; la rottura con l’Unione Sovietica e i paesi dell’est negli anni Ottanta del secolo scorso, dopo il colpo di Stato in Polonia. Fu, se ricorda, la famosa frase, in una conferenza stampa televisiva, con cui affermò che era finita la spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre. I comunisti erano nati, come si è visto, a seguito di quell’evento. Ora si prendeva atto, anche se tardi, che i suoi esiti non erano stati la libertà e la promozione sociale, il riscatto dei ceti popolari, ma regimi oppressivi e autoritari.

D.Nell’ambito di questa trasformazione, quale fu la natura del rapporto con l’URSS?
R.Il rapporto con l’Unione Sovietica fu stretto, come ho detto, alla nascita del Partito Comunista d’Italia, nella fase della lotta in Europa contro fascismo e nazismo, nel dopoguerra, con la guida del partito da parte di Togliatti. Togliatti costruisce una via autonoma, anche con tratti di originalità, per la trasformazione della società italiana, ma non vuole assolutamente recidere il legame con l’URSS. Sta qui secondo me quella che è stata definita “doppiezza” politica: ricerca dell’intesa più ampia con le forze democratiche in Italia, impegno a difesa della Costituzione, per lo sviluppo delle libertà, via italiana al socialismo ; al tempo stesso adesione sul piano internazionale alle scelte del partito comunista sovietico. Questo sarà secondo me particolarmente grave quando verrà appoggiato Stalin nello scontro ideologico con la Jugoslavia di Tito e ancor più nel sostegno all’intervento sovietico in Ungheria, nel 1956. Togliatti cerca di tenere insieme le due linee strategiche, dopo la rivelazione/denuncia da parte di Krusciov dei crimini di Stalin, al XX congresso del Pcus, elaborando l’impostazione dell’unità nella diversità. Si resta tuttavia all’interno di un rapporto non risolto con il cosiddetto socialismo reale. Con Longo segretario si ha una primo passo di distacco, con la riprovazione e il dissenso espressi dopo l’invasione della Cecoslovacchia ad opera degli eserciti del patto di Varsavia, che distruggono il sogno della primavera di Praga e del socialismo di Dubcek. La separazione politica avviene con Berlinguer. Ho già detto della sua affermazione della democrazia come valore universale, della Polonia come ultima goccia di una divergenza non più componibile, che era passata attraverso lo scontro sull’eurocomunismo, la condanna del PCI dell’invasione sovietica dell’Afghanistan. Resta una domanda cruciale: perché tanto tempo per arrivare a una rottura in presenza di visioni politiche non conciliabili? Ha pesato non poco sul PCI questo ritardo. Tra le molte cause, ne metto in evidenza tre : la storia personale di vita nel primo gruppo dirigente attorno a Togliatti, unito al clima poi della guerra fredda e a un anticomunismo non sempre democratico. La convinzione, rimasta a lungo nella generazione dei dirigenti responsabili della guida del partito con Berlinguer, di una riformabilità dell’Unione Sovietica e forse la preoccupazione che recidere una radice che veniva da lontano indebolisse l’identità e non tenesse unita la comunità politica che vi si riferiva. Come si è visto, chi non voleva distaccarsi dall’Urss rappresentava attorno al 10% degli iscritti e meno negli elettori. Infine un errore anche nostro, della generazione ancora più giovane chiamata a svolgere responsabilità di direzione nel partito. Per noi l’Unione Sovietica non costituiva né un mito né un ideale o un esempio in grado di attrarre. Noi avevamo scelto il PCI sull’onda del movimento studentesco e della guerra degli Stati Uniti al Vietnam. Per noi il rapporto con l’Unione Sovietica non costituiva un problema, ma lo era per la coerenza del PCI, per la sua piena credibilità nella società italiana, in Europa e nel mondo. E lo era per realizzare l’unità delle forze di orientamento socialista. Si anche la nostra sottovalutazione ci ha fatto sbagliare, anche se dopo è stata la nostra generazione, con Occhetto, che si è assunta il peso di salvare l’eredità migliore e positiva dei comunisti italiani, dandole nuovi approdi.

D.Il Partito Comunista Italiano ebbe rapporti stretti anche con il mondo cattolico. Quali furono le ragioni della convergenza di cristiani con la maggiore forza di sinistra?
R.Il PCI a differenza degli altri partiti comunisti e di molte forze socialiste si pone il tema della religione e del cattolicesimo. Lo fa prima di tutto Gramsci. Passa anche da questi approfondimenti la consapevolezza di una diversità dell’Occidente rispetto alle vie seguite in Russia per una trasformazione della società. Il partito nuovo di Togliatti ha nello statuto una formulazione che non si ritrova in nessun altro partito comunista: vi è il riferimento al marxismo – leninismo ma al partito si possono iscrivere tutti quelli che, compiuti 18 anni, ne condividano il programma, quale che sia la loro fede religiosa, cultura, etnia. Sempre Togliatti a metà degli anni Cinquanta rivolgerà un appello al mondo cattolico per un comune impegno contro i rischi di una guerra nucleare e la distruzione dell’umanità. Il mondo cattolico non solo era sensibile a questi temi ma vi stava sviluppando una forte e diretta iniziativa: pensi per tutti all’azione di Giorgio La Pira, il sindaco che fa di Firenze la città simbolo nel mondo della pace. Non mi faccia pensare alla modestia del nostro presente! Togliatti, poco prima di morire, nel 1963, nella conferenza di Bergamo, su “Il destino dell’uomo”, tocca questioni che il mondo cattolico e in genere un credente non può non sentire come proprie : l’essere umano di fronte allo sviluppo che può sovrastarlo, l’alienazione, il senso compiuto della vita, una società più giusta. E Berlinguer, nel famoso scambio di lettere con il vescovo Bettazzi, definisce il PCI come ” non ateista, non teista, non antiteista”. In altre parole afferma che compito di un partito, in quanto tale, non è quello di essere portatore o di imporre una concezione del mondo e dell’uomo, ma di affermare dei valori e presentare un progetto di società. Nel 1979 il congresso cancella dallo statuto del PCI il riferimento al marxismo – leninismo. Resta solo l’adesione al programma politico come condizione per aderire al partito. Negli stessi anni, dal concilio Vaticano II in poi, era maturato nel mondo cattolico il diritto – dovere di un credente al pluralismo nelle scelte di ordine temporale :per il sindacato, i partiti, l’associazionismo. Giovanni XXIII aveva distinto nell’enciclica “Pacem in terris” l’errore dall’errante, cioè le dottrine filosofiche dall’uomo e dalla concretezza degli obiettivi del suo impegno, se o meno di giustizia, uguaglianza nella dignità di vita, pace. A metà degli anni Settanta, esattamente nelle elezioni politiche del 1976, personalità cattoliche di primo piano, tra gli altri Raniero La Valle, Mario Gozzini, Piero Pratesi, il pastore Tullio Vinay, si candidarono come indipendenti nelle liste del PCI e furono eletti. Il PCI era nei fatti in Italia per i voti il secondo partito di cattolici ma era la prima volta che ciò visibilmente si presentava e appariva con tanta nettezza nelle sue liste. A differenza del 1949 non ci furono scomuniche. Il mondo era davvero cambiato. Si poteva aderire, candidarsi, votare per il PCI o per altri partiti se si condividevano progetti e priorità programmatiche.

D.Ritiene che sussistono ancora le condizioni per un rinnovato partito di sinistra?
R.Sono convinto che in una democrazia siano necessari i partiti, di sinistra e di destra. Non esiste democrazia senza pluralismo. Naturalmente penso a partiti non anti sistema, ma democratici, che si muovono dentro i confini della Costituzione e hanno in comune il riferimento alla Costituzione. Da questo punto di vista mi auguro che tra i frutti del governo Draghi possa esserci il rafforzarsi dell’impegno e del sentimento europeisti e un riconoscimento reciproco di legittimità. Voglio essere chiaro :mi auguro che la Lega si sia davvero convertita all’europeismo e non sia una finzione tattica. E mi auguro che abbassi la violenza e talora l’aggressività delle polemiche. Sarebbe un bel risultato perché l’Italia ha bisogno di competenza, di dedizione, di senso delle istituzioni, di impegno per il bene comune. Vengo alla sinistra. Il Pd è nato per unire tutte le componenti di sinistra, per essere la Casa comune di credenti e non credenti, di tutti i progressisti. È nato come forza politica laica, europeista. Siamo riusciti a essere coerenti con questi impegni presi all’atto di nascita? No! Oggi abbiamo un’identità politica fragile, un progetto di società che non appare con chiarezza, un programma che si caratterizza per comparti settoriali. Il PD è troppo chiuso dentro le istituzioni e poco presente sul territorio, nella società. Rischiamo di essere una confederazione di correnti elettorali. Così non va. Occorre cambiare e rapidamente. Non consola vedere che gli altri partiti sono spesso in condizioni anche peggiori. Dobbiamo semplicemente essere quello che ci siamo promessi quando abbiamo fondato il Partito Democratico : una sinistra plurale. È intollerabile che qualcuno voglia fare vivere il partito come un’ associazione angusta, senza solidarietà politica, che confonde la fedeltà con la lealtà, che si dedica a una redistribuzione di incarichi anziché aprirsi a un deciso e forte aumento degli iscritti, a una partecipazione ampia al dibattito e alle decisioni. La società italiana ha bisogno del PD. Ma se il PD non saprà concretamente essere quella sinistra plurale, di cui ho parlato, prevarranno sfiducia, delusione, abbandono dell’impegno e anche di un sostegno nel voto. Non bisogna dimenticarci la sconfitta in Umbria, prima ancora alle politiche del 2018, al Comune di Pistoia e in varie altre città. Né bisogna metterci dietro le spalle la consapevolezza che alle regionali in Toscana abbiamo vinto bene, ma fino all’ultimo miglio dal traguardo eravamo indietro. In ogni caso, nelle regionali, in provincia di Pistoia abbiamo perso e abbiamo perso in ben 15 comuni. Sarà il caso di darsi un mossa, di svegliarci. Per farlo è indispensabile che le critiche siano costruttive, che si superino personalismi legati magari a rendite di posizione, che ci sia un impegno comune, l’umiltà di ascoltarsi e di tirare nella stessa direzione. L’idea che si è promossi nei ruoli di responsabilità a prescindere dai risultati conseguiti è una sciocchezza che distrugge, non costruisce. Guai a farla diventare una sorta di legge o di virtù.