Da anni non compro più giornali. Prima, e per decenni, ogni mattina sosta obbligatoria all’edicola per acquistare “Il Corriere”.
In realtà ne leggevo almeno due, l’altro, La Nazione, assieme all’amico Sergio che su quel giornale scriveva la cronaca di Pescia. Al solito bar, puntuali come orologi svizzeri: cappuccino, brioche e commento delle notizie.
Immancabili e quotidiane le incazzature di Sergio che regolarmente telefonava a Montecatini, infuriato perché non gli pubblicavano tutti gli articoli che aveva inviato.
Ora, “il giornalone” è diventato uguale a tutti gli altri, notizie e inchieste a senso unico, i soliti commenti sotto dettatura, i soliti scrivani che fanno finta di essere giornalisti, per di più con una scrittura da far invidia a Novella 2000 dei bei tempi andati, in attesa della solita comparsata in TV.
Della Nazione non trovo più traccia, forse perché a Pescia non succede mai nulla o forse perché di Pescia non frega niente a nessuno.
Avevamo, naturalmente, una soluzione per ogni problema, io e Sergio, su molti argomenti eravamo perfettamente d’accordo, su altrettanti in totale disaccordo e questo cementava l’amicizia e stimolava la discussione.
Si ragionava, io e Sergio, ed era un chiodo fisso, sulla necessità che Pescia avesse un “assessore alle cose semplici”, quello che si doveva occupare delle buche per terra, della segnaletica che non c’è, dei giardini sporchi, dei viottoli della montagna, delle barriere architettoniche, degli orari degli uffici pubblici in conflitto perenne coi cittadini, del pronto soccorso, dei luoghi dove far giocare i bambini, praticamente un libro dei sogni, ma i politici cittadini ambivano tutti all’urbanistica o ai lavori pubblici, dove sei qualcuno e dove girano i quattrini.
Si ragionava, io e Sergio, del mercato dei fiori, quello vecchio, quello che era pieno di gente fin dall’alba, sommerso dai garofani dai colori squillanti, ammucchiati sui banchi in ordinati mazzi da 25 e da gladioli alti come corazzieri e da nuvole di bianca gipsofila e dall’odore intenso delle foglie d’alloro.
Quello con i bar intorno dove le colazioni erano piatti di trippa fumante, panini col profumo di rigatino che arrivava in strada e necci con la ricotta, olive marinate e uova sode.
Quello dove la voce limpida della ragazza all’altoparlante chiamava i commercianti alla cabina telefonica mentre Antonio Natali, il direttore che del mercato conosceva anche le ragnatele e regnava su tutto, passava frettoloso tra i banchi.
Poi, quasi all’improvviso, il nuovo mercato fu quasi finito, il ministero aveva speso una barcata di soldi per costruirlo.
I progettisti si erano sbizzarriti realizzando un edificio dalla modernità irritante, difficilmente comprensibile, tutto vetri e con quei pennoni metallici e tiranti che svettavano quasi a minacciare il convento di Colleviti adagiato pacificamente sulla collina retrostante.
Una nuova struttura del tutto estranea al territorio intorno e per di più dai costi di manutenzione enormi e insostenibili per qualunque gestore.
Verso la fine degli anni 80 arrivò l’ordine di chiudere il vecchio e aprire il nuovo. Fu quasi di nascosto a inizio novembre, nessuna cerimonia, il Sindaco, incazzato, non si presentò nemmeno.
In quell’enorme spazio vuoto, del tutto sovradimensionato rispetto alle reali necessità del mercato, produttori e commercianti, abituati a stare gomito a gomito, si trovarono spersi. Per di più, all’interno, un grande scatolone doveva accogliere la sala d’asta, ridicola e improbabile parodia della perfetta vendita all’asta olandese.
Passo davanti al bar desolatamente chiuso, butto un’occhiata d’abitudine e cerco.
Cerco uno sguardo di rimprovero, incredulo, di chi non si capacitava del fatto che appassionato per il calcio non lo fossi anche per il basket.
Vorrei ragionare con lui, con Sergio, del vecchio mercato rimesso a nuovo, e perché? Per cosa? Per chi? E che fine hanno fatto i garofani? E confrontare la bellezza e l’eleganza di quel tetto a vela che sembra sospeso, perfettamente assorbito dal mondo intorno, con gli improbabili pennoni che sembrano reggere il nulla.
Di sicuro saremmo stati d’accordo che non si possono fare sempre gli stessi errori, prima realizzare una cattedrale nel deserto, facendo finta che sia un mercato, poi far tornare a nuova vita quello morto senza avere la più pallida idea di cosa farne e di chi dovrà impedirne un nuovo degrado.
Quando sento parlare di strutture polivalenti mi vengono i brividi.
Nella nostra inutile chiacchierata ci saremmo chiesti dov’era la Biennale e com’è che mentre Pescia buttava via una mostra del fiore di successo, Lucca raddoppiava utilizzando le mura.
E che fine ha fatto l’acquedotto del Pollino, importante riserva d’acqua, pensata, realizzata e pagata dai pesciatini, e l’Ospedale? E la montagna?
Il cappuccino e la brioche son finiti da un pezzo e mi devo rassegnare a fare domande senza risposta.