[…] Alcuni de’ lucchesi che duramente fiaccare volsero la ribellione della terra di Pescia che si era data a Rodolfo, re de’ romani, rumoreggiarono forte in nelle contrade loro in que’ giorni di arsura, e così accadde che uomini, donne e giovani scesero per strada urlando “Pescia bruci tutta, e che non rimanga niuno pesciatino vigliacco e infingardo vivo!”.

Quelle voci furono sì alte che il governo di Lucca inviò alcune de le sue dotate milizie di onesti cittadini a spargere odio distruzione e guerra in quelle terre maliziose e ribelli; e fatto gli è che il dì XX di agosto MCCLXXXI, in su l’ora prima, dopo aver sentito messa in nella cattedrale de lo Santo Martino, il signor vescovo di Lucca Paganello invitò di quelle milizie a bruciare la terra di Pescia e le altre circonvicine che avevano disobbedito al suo ordine di non prestare giuramento a Rodolfo, re de’ romani.

Dopo sentita messa, dette milizie presero la via dell’Arancio e furno in breve a’ piedi del colle di Vivinaia, dove si aggiunsero a queste altri soldati e donne e fanciulli, desiderosi tutti di riavere il possesso di quelle terre ribelli. Arrivati ne’ pressi della pieve di Santo Piero, dove è il guado della via di Squarcia Bocconi, furno rifocillati con abbondanza di vino e uova e carni di coniglio e maiale e oche da que’ paesani, che massimamente erano di Portici e de’ Colletti e pure qualcuno vi era del Regno.

Giunti che furno ne’ dipressi del Colle Viti, e non sospettando que’ pesciatini ribelli di uno scontro co’ lucchesi, fecero entrare per Porta Lucchese alcuni di loro insieme con certe donne che erano giunte lì per fare sollazzi co’ pesciatini. Non dubitando alcuna malizia in que’ lucchesi, li fecero entrare per la Porta senza timore alcuno e però a un cenno di una donna che era lì con loro, il resto de’ lucchesi entrò subitaneamente e prese a correre per le vie e i cantini di quella terra. E questo principiò in nell’ora di sesta del dì XX di agosto MCCLXXXI.

Que’ lucchesi principiarono a saccheggiare quelle case e quelle chiese e vi fu scempio che ne’ superstiti rimase grande impressione e sbigottimento alto. Alcuni de’ lucchesi che furono lì trabarcarono il ponte che menava a la pieve detta di Santa Maria e quivi di que’ soldati entrarono prendendo ostaggi alcuni de’ canonici che pregavano santo Allucio e la Dorotea, affinché salvassero Pescia dai perfidi lucchesi. Alcuni di questi furno orrendamente subito mutilati delle loro mani, mentre altri si seppe in seguito che furno presi come ostaggi.

Due donne che usavano sollazzarsi con diletto con le milizie guelfe entrorno in nella chiesa del Santo Francesco e quivi, veduta con meraviglia piena la tavola che rappresenta la vita del santo di Assisi, la staccarono da lo muro e la tolsero fuori e la nascosero sotto alcune balle di fieno che stavano sopra un carro da loro portato.

Altri della milizia lucchese, conoscendo della cantina del signor pievano essere bene fornita di ogni bene di Dio, ruborno dieci botti di vino trebbiano, oltre a sacchi di grano e altri di certi fagioli sì piccoli che parevano fiocchi di neve, e furno caricati sul medesimo carro ov’era la tavola del santo.

Dal lato di Bareglia, i lucchesi avevano issato su un grande mangano che chiamavano la Grande Troia, che lanciava ver le mura di quella terra infida e maliziosa assai, sassi e altro materiale di oltre mille libbre, e da quel colle, che i pesciatini vili chiamano Ontanatico, i lucchesi lanciavano su la piazza del Mercato Longo certi asini che avevano seco, creando sì grande scandolo e ripugnanza assai. Alla fine, furno XV gli asini lanciati sovra i tetti delle case che nascondevano que’ farabutti e  bastardi maliziosi de’ pesciatini.

O pesciatini e pure qui metto gli alberghini e i veneresi, quanto vi rallegrate del male altrui, accidenti a voi, figli di cagne luride e nate da madre bastarda, sperando a voi tornare utile, e non considerate quanti pericoli sono quelli che le guerre e le tribolazioni tutte portano e quante persone ne muoiono e quante terre e città si disfanno per colpa vostra! Voglia lo onnipotente Iddio che le chiuse de lo Ponte di Cappiano non si aprano più per mille e mille anni ancora, così che voi affoghiate miseramente ne la vostra lercia Pescia, e che possiate morire sguazzando in nella belletta de lo padule di Fucecchio, trascinati a forza dallo impeto della corrente di quel torrente che tanto considerate amico e buono e savio e pio.

Gran numero de’ principali di quella terra infida che fu detta Pescia fu appiccato in su i veroni di que’ palazzi loro e alcuni preferirono gettarsi da i loro tetti o da le loro finestre per non subire l’onta di morire di mano lucchese. Alcuni de’ lucchesi, conoscendo li nomi di que’ preti e di que’ regolari che erano seguaci di Rodolfo, re de’ Romani, li trassero da’ loro luoghi e li fecero uno a uno annegare nelle bozze che stavano sotto il ponte de lo Santo Francesco, creando grave scandolo tra li pesciatini tutti.

De’ giovani lucchesi e di certe donne che erano con loro principiarono a dare fuoco a le case che ritenevano notabili e prima saccheggiavano queste di quei grandi beni di cui si diceva li pesciatini maliziosi erano ben ricchi; spesso furno visti i lucchesi a badaluccare ver que’ di Pescia e molti ne furno feriti  e morti dell’una brigata e dell’altra. Senza contare poi le case che bruciavano e fu questo visto fin dalle terre del Comune di Castellare e di quello di Veneri. […]

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