Chi si accinge a parlare del fabbro, deve cominciare da Efesto, che i romani ribattezzarono Vulcano. Non occorrono molte parole per mettere in evidenza le sue virtù. Basta dire che lavorava in due botteghe e gli dei si servivano da lui. Giove gli fece fare lo scettro, il Sole gli commissionò il carro sul quale, da allora, attraversa il cielo da levante a ponente, Ercole ebbe da lui la corazza e Achille l’armatura e anche lui lo scettro. Ma un giorno che Vulcano mise il dito tra moglie e marito, ovvero tra Giunone e Giove, che avevano litigato, venne scaraventato giù dall’Olimpo e in seguito al capitombolo diventò zoppo, poveretto.

Questa, in fin dei conti, fu una disgrazia da poco. Il guaio, invece, è che rimase disoccupato, e lo stesso capitò a tutti i suoi colleghi, eccetto un certo Teofilo, fabbro bravo e fortunato, il quale fece al re Alessandro Magno un elmo di ferro massiccio, che però luccicava come se fosse d’argento.

Erano cominciati tempi duri per i fabbri, e dire che erano artigiani capaci di grandi invenzioni, come quella di saldare il ferro, cosa che riuscì, primo fra tutti, a un certo Glauco di Chio. Purtroppo però il numero di coloro che esercitavano questo mestiere calava di giorno in giorno almeno in certi paesi. In Israele, per esempio, i fabbri, che una volta erano in grande numero, dovettero cambiare mestiere. I Filistei – dice il Libro primo di Samuele – per impedire la riscossa degli Ebrei, che erano sempre stati i loro nemici più accaniti, li costrinsero a chiudere le botteghe dei fabbri in modo che non potessero fabbricare spade e lance. E chi avesse avuto bisogno di farsi aggiustare il vomere o la zappa, la vanga o la falce doveva recarsi dai Filistei e sborsare fior di quattrini.

Finalmente sono i potenti, quelli di Roma soprattutto, che portano lavoro ai fonditori di bronzo e anche ai fabbri. Questi e quelli hanno sudato sette camicie e i loro muscoli si sono irrobustiti, neanche quelli di Braccio di Ferro, quando hanno fatto busti e mezzibusti ai signori potenti. E ora che questi signori, uno oggi e uno domani, piano piano senza furia, cascano come dal pero le pere marce, le loro belle facce – dice uno scrittore latino – si trasformano in catini, padelle, brocche e vasi da notte. Così è successo anche ai nostri tempi.

Ma il boom per i fabbri scoppia più o meno alla fine dell’anno 1100 e continua per un secolo e mezzo (salvo qualche interruzione strada facendo), quando i crociati prendono armi e bagagli e vanno in Terrasanta, lasciando a casa le loro spose. Ora, prima di andare a far la guerra, mi sembra giusto che uno sistemi le sue cose in seno alla famiglia, e soprattutto si assicuri che, durante l’assenza, sua moglie non gli giochi qualche scherzo, come quello che capitò a un marinaio di Gaeta. Costui s’imbarcò che non aveva figli e quando tornò, dopo cinque anni di navigazione, ne trovò uno bello vispo, avuto per grazia del Signore, come gli disse candidamente la sua fedele sposa.

L’unico che poteva rassicurare il crociato era il fabbro, a cui venne in mente di fabbricare la cintura di castità, con chiusura a doppia mandata, e la chiave da consegnare al marito, è chiaro, così fa la guerra tranquillo e contento come una pasqua.

Ma vai a fidarti di costoro. Ora che i crociati hanno chiuso a chiave la virtù delle loro spose, mi dite come fanno i poveri fabbri a sbarcare il lunario visto che il lavoro è finito? Non possono mica fare cinture di castità di riserva o da usare nei giorni festivi, e allora che inventano? Ecco che balena loro l’idea di diventare chiavaioli, ovvero fabbricanti di chiavi, e non tanto per la serratura di casa nostra, quanto per fare un doppione, e anche più di uno, della chiave che il crociato in Terrasanta conservava al sicuro nella tasca del panciotto.     Dice il professor Carlo M. Cipolla che, in seguito a questa trovata, nacquero tempi d’oro per i fabbri e la metallurgia europea entrò in una fase di forte espansione.

Se si fa un salto di alcuni decenni, si trova Bondone, il padre di Giotto, che esercita a Firenze il suo mestiere di fabbro, e gli affari non dovevano andargli troppo male. Ma bisogna dire che, fatto un altro salto, questa volta di circa 700 anni, l’intera categoria dei fabbri (almeno quelli italiani, ma non credo che negli altri paesi se la passassero meglio) entrò in crisi, quando un decreto del duce capo del governo proibì, per recintare i nostri giardini, l’impiego del ferro e di qualunque altro materiale metallico, e questo a partire dal primo luglio del 1939. L’anno successivo, con la legge n. 408 dell’8 maggio, venne ordinata la rimozione delle cancellate esistenti, perché c’era bisogno di fabbricare cannoni, dato che l’Italia stava per entrare in guerra. Ai proprietari venne dato il compenso di una lira per ogni chilo di ferro o di ghisa che veniva recuperato.

Dopo la guerra i fabbri hanno ripreso a pieno ritmo la loro attività, per fare cancelli e recinzioni di ferro e anche per mettere le sbarre alle finestre, allo scopo di impedire ai ladri di entrare in casa. È certo però che gli affari da loro conclusi non possono competere con quelli che fecero gli antichi colleghi al tempo in cui era di moda la cintura di castità. A proposito della quale, per concludere, vorrei tirare in ballo Trilussa con questo suo sonetto che s’intitola Er cinto de castità:

            Ho letto spesso che la gente antica,

            pe’ conservà la donna casta e pura,

            je metteva una spece de cintura

            pe’ sarvà l’onestà senza fatica.

 

            Qualunque amante, ner lassà l’amica,

            je la chiudeva co’ la seratura…

            Come una porta!…Che caricatura!

            Che marfidati, Iddio li benedica!

 

            Oggi che semo gente più morale

            ‘ste cose nun succedono, per via

            che la femmina è onesta ar naturale.

 

            Ma però, se ce fusse ancora ‘st’uso,

            come farebbe Mariettina mia

            pe’ ricordasse l’urtimo ch’ha chiuso?