FIRENZE 1884. Si svolge il processo penale contro Vittoria Venturini, una specie di avventuriera o forse solo una ragazza sfortunata, molto libera e spregiudicata per la morale dell’epoca, accusata di aver perpetrato una truffa ai danni di un rampollo della ricca borghesia, il giovane cavaliere avvocato Eugenio De Witt, che vive a Livorno.

La ragazza è l’amante del De Witt, ha da lui un figlio, che all’epoca del processo ha sette anni, ed è mantenuta dal De Witt e dal padre di lui, facoltoso banchiere, fino ad una grave lite per motivi sentimentali ed economici, che finisce in un processo penale.

Il processo si conclude nel mese di luglio con la sentenza di colpevolezza e la condanna a ben otto anni di reclusione della Venturini.

La vicenda è seguita dalla stampa, che coglie subito l’occasione di raccontare alla nuova nazione italiana, alla sua borghesia nascente, una vicenda torbida e pruriginosa che sa tanto di romanzo di appendice francese, con sesso e soldi che girano.

Tra i giornalisti che pubblicano i loro articoli c’è il cavaliere professore Cesare Parrini, che scrive per la Gazzetta d’Italia, giornale di Roma. Il nome di Cesare Parrini oggi non dice niente a nessuno, ma all’epoca è un personaggio eclettico molto conosciuto negli ambienti intellettuali, nei circoli della borghesia e della nobiltà.

Parrini, nato a Firenze nel 1835, è insegnante nella scuola tecnica del liceo Dante, direttore di vari giornali educativi, collaboratore della Gazzetta d’Italia e del giornale Il Fieramosca, già sotto segretario di Prefettura, segretario della Società Promotrice Belle Arti, promotore della Federazione Ginnastica, fervente sostenitore dell’unità’ d’Italia sotto Casa Savoia, è un esponente della Unione Monarchica Costituzionale. È inoltre autore di biografie di Massimo D’Azeglio, di Carlo Alberto, di Vittorio Emanuele II, di Cesare Balbo e di alcune pubblicazioni sulla storia di Italia, sul nuovo Regno d’Italia, nonché’ possessore di una vasta biblioteca.

Oltre a tutto questo, Cesare è un massone, anzi un massone molto importante della loggia fiorentina Concordia, dichiaratamente ateo e anticlericale.

Si deve ricordare che fino ai patti lateranensi del 1929 tra il Regno d’Italia e la Chiesa Cattolica vi è inimicizia dichiarata e quindi il Parrini è un perfetto esponente culturale del Regno laico italiano.

Tornando al fatto, il Parrini scrive un articolo sul processo, ma probabilmente con informazioni non corrette descrive in modo non lusinghiero le figure della vittima del reato, il giovane cavaliere Eugenio De Witt, e il suo ricco padre banchiere.

L’articolo viene letto ovviamente dall’interessato, il De Witt, che lo ritiene gravemente oltraggioso per lui e per il genitore.

De Witt richiede con un telegramma al giornale una smentita alle notizie pubblicate e di conoscere il nome dell’autore del pezzo, ma per un disguido non ottiene dal giornale alcuna risposta e si considera ancor più offeso.

Il De Witt, che deve essere un tipetto molto focoso, saputo comunque il nome dell’autore dell’articolo, si reca a Firenze da Livorno, e gli è facile trovare il Parrini, che non ha mai visto prima. Lo affronta per la strada, fuori dalla redazione del giornale Il Fieramosca, gli chiede conferma della sua identità e lo colpisce al volto con un solenne schiaffo dichiarandosi a sua disposizione.

Un gesto, un affronto simile, comporta per i gentiluomini del tempo una sfida per il duello.

Il duello è una pratica codificata di soddisfazione delle offese che prevede, tra due parti di pari rango, il combattimento con lo stesso tipo di arma. Questo può avere diversi gradi di livello secondo l’offesa ricevuta: offesa lieve, duello al primo sangue, cioè fino alla prima ferita; offesa grave, duello ad oltranza, cioè fino a che sia possibile battersi per le forze possedute; offesa gravissima, fino alla morte di uno dei due. Ogni parte deve essere assistita da due padrini o secondi, che hanno il compito di ambasciatori e di arbitri sul campo.

Il duello è punito dal codice penale, ma risponde ad un codice di onore a cui i gentiluomini da qualche secolo, e persino con qualche patetico caso fino ad oggi, non vogliono sottrarsi.

Il Parrini raccoglie la sfida per non essere definito un codardo, incarica quindi due gentiluomini, il conte Giovanni Arrivabene e il dottor Gaetano Malenotti, di chiedere soddisfazione. I due incontrano i padrini designati dallo sfidante, l’avvocato Angelo Muratori e il signor Giovanni Montepagani, presso L’hotel Cavour. I padrini, nonostante i tentativi fatti, non trovano alcuna soluzione amichevole alle offese. Viene fatalmente deciso il confronto con le armi, scegliendo la sciabola, con guanto e senza limite di colpi, con combattimento fino a che sia possibile battersi, ed il luogo, fuori Firenze, nel parco della villa Torrigiani a Sesto, al mattino presto per sfuggire al divieto della legge. Prima contraddizione nel comportamento del Parrini. Egli, ha infatti condannato, in una conferenza presso il Circolo Filologico di Firenze, i duelli e le loro conseguenze, ritenendo necessario che gli uomini civili ricorrano alla giustizia ordinaria per risolvere le loro controversie.

Egli quindi non tiene fede a tale principio e accetta di battersi con grave rischio contro un uomo ben più giovane di lui, invece di denunciare il fatto per esempio al Questore di Firenze, di cui è molto amico.

Ben prima dell’alba del 19 luglio le carrozze si muovono dalla Piazza della Stazione di Firenze e raggiungono il luogo della sfida. Sono presenti i quattro secondi, i due sfidanti ed un medico, come regola. Alla prima luce, Eugenio De Witt e Cesare Parrini incrociano le sciabole.

I duellanti sono capaci e vigorosi, ma De Witt è più giovane e più abile nella scherma. Ci sono più di ventuno assalti nei quali il De Witt ferisce leggermente il Parrini per due volte al braccio e ad una ascella. Nonostante le ferite, il Parrini pretende di continuare il duello, tenendo testa bene e con coraggio, sempre contenendo gli attacchi dell’avversario, fino ad un tremendo affondo del De Witt che infigge profondamente la sua lama nel basso ventre del Parrini, procurandogli una ferita devastante.

Cesare Parrini viene trasportato in una casa attigua alla villa Torrigiani, assistito da un medico, da un infermiere dell’ospedale, e dagli amici e dalle amiche subito accorsi saputo del ferimento. La notizia si diffonde a Firenze e sui giornali. La ferita è troppo grave, non si può fare nulla.

Parrini, che rimane sempre lucido, comprendendo di essere spacciato, chiede qualcosa che nessuno si sarebbe mai aspettato…il prete per confessarsi. Lui, ateo massone. Seconda enorme contraddizione.

Viene quindi chiamato Don Luigi Miccinesi, Vicario spirituale della vicina parrocchia di Santa Maria a Quinto, che procura di fargli abiurare il rifiuto della fede alla presenza di due testimoni e gli concede i sacramenti. Il poveretto muore tra atroci sofferenze il 22 luglio.

A questo punto i massoni lo rinnegano gettandogli addosso l’infamia della abiura. Addirittura, qualcuno dice che un alto esponente della sua loggia si reca a Sesto e, trovandolo ormai morto, schiaffeggia il cadavere del povero Parrini, manifestando con il gesto, a dir poco teatrale, tutto lo sdegno che lo pervade.

I cattolici invece, approfittando della ghiotta occasione, attivano una colossale campagna di propaganda pubblicando numerosi articoli sulla loro stampa specializzata dal titolo comune “l’edificante conversione di un settario“, tradotti in numerose lingue, che raggiungono perfino le Americhe e l’Australia, trattando per la verità con poca pietà il povero defunto, descritto come un uomo di valore, ma satanasso e reprobo che ha ritrovato la fede, da lui sempre tenuta nascosta e solo sopita, per paura della morte.

Viene ovviamente aperto un procedimento penale a carico di Eugenio De Witt, che viene arrestato, dei quattro padrini e del medico presente al duello. Tutti vengono assolti dalla Corte d’Assise, nonostante una accorata presa di posizione di alcuni giornalisti che sostengono che il Parrini sia stato assassinato dal De Witt. Il Fatto accertato dai giudici è che la vittima ha voluto ostinatamente il duello e lo ha voluto caparbiamente proseguire a tutti i costi, nonostante le ferite subite, fino al tragico esito e nulla può essere contestato agli imputati.

Il cavaliere chiede di essere sepolto a Torino, città che amava e nella quale aveva vissuto in gioventù’, e lascia in eredità’ alla biblioteca civica del luogo la sua grande collezione di libri, in particolare la raccolta sulla storia del Risorgimento italiano, che ancora è patrimonio di quell’ente.

Povero cavaliere professore Cesare Parrini, colto, intelligente, coraggioso, di animo nobile, ma caduto in due contraddizioni enormi, la prima che lo porta alla morte, decidendo di non denunciare la sfida ricevuta, la seconda che lo porta forse alla salvezza eterna, ma sicuramente lo porta anche a ricevere il disprezzo dichiarato della sua società’ civile laica e a quello non dichiarato dei cattolici che poi, con lui tanto buoni non sono.

Povero cavaliere professore Cesare Parrini, vittima della stampa, in vita per i suoi articoli, in morte per la propaganda clericale. Condannato di fatto ad una sorta di damnatio memoriae, perché nessuno parlò più di lui e nessuno più si ricorda.

I duelli sono una pratica purtroppo usata. Uno più famoso del nostro è quello che si ha nel successivo 1898, quando, Felice Cavallotti, celebre garibaldino parlamentare e politico, titolato ancora oggi nella toponomastica viaria delle città italiane, veterano dei combattimenti d’onore, viene ucciso a Roma in duello alla sciabola, da lui provocato, dal conte Ferruccio Macola, direttore di un giornale. Motivo della sfida l’offesa per una notizia da questi pubblicata. Il conte viene condannato a un anno di reclusione e i secondi assolti.

Penso che, come per Cavallotti, almeno una stradina o un vicoletto potrebbe oggi essere dedicata nella sua Firenze al professore Cesare Parrini, non per la terribile morte e per la conversione, ma in riconoscimento della sua indiscutibile personalità, del suo riscoperto valore di umanista, letterato e giornalista nella prima unità d’Italia, del suo grande lavoro per la città e per la nuova nazione, per averne memoria e toglierlo dall’ oblio nel quale la sua assurda morte lo ha confinato.

 

Notizie tratte da

  • Jacopo Gelli, I duelli mortali del XIX secolo, Battistelli Milano, 1899
  • Bollettino Salesiano, dicembre 1884
  • TuttoSesto, sfogliando i vecchi giornali, il duro mestiere del giornalista, settembre 2019