Nelle mie frequenti escursioni nel passato, chiaro segno dell’avanzare dell’età, tornano – con frequenza – segnali indelebili di tappe contraddistinte da eventi particolari. A parte i festeggiamenti familiari, che mi pare fossero pochi e senza clamori, il giorno che fissava la fine della settimana era la domenica. Era un giorno speciale perché atteso da sempre come qualcosa che avrebbe cambiato il percorso delle sei frazioni precedenti, e non era poco. Domenica. C’erano dei riti da rispettare, soprattutto quello della Messa. Infatti, quasi tutto il paese si ritrovava a quelle delle 11, e ricordo bene la chiesa affollata e partecipe alla funzione. Anche la destinazione delle panche era abbastanza rigida; dall’ingresso principale, sulla destra gli abitanti a sud di quella; quella sinistra, quelli a nord, e non ho mai capito perché. I ragazzi, radunati in un angolino, in rigoroso silenzio, e un po’ invidiosi di coloro che svolgevano la mansione di chierichetti: davano l’impressione di essere più bravi, e più importanti, di tutti noi che – in fondo – godevamo però maggiore libertà, poi.

 

Mi sembrava ci fosse concentrazione da parte dei presenti, anche se notavo – curiosamente – uomini che, in giacca e cravatta (quasi tutti) che portavano, ripiegato in una tasca esterna, un giornale. La mia attenzione era attratta dal titolo: “L’Unità”, che veniva venduta a mano nella strada, e che non mi diceva proprio niente. La durata della celebrazione era piuttosto lunga, e dopo un po’, scalpitavamo – lentamente e silenziosamente – perché, si può dire, quel latino, incomprensibile, ci stancava. Infatti, alla fine, e alla relativa uscita dei presenti, corse e urla per sgranchire le gambe e la gola dopo un’oretta di immobilità e di silenzio. Il programma era quasi sempre lo stesso. Intanto, abbasso la squola!, per iniziare. E i compiti? Quasi tutti il sabato pomeriggio, ma poteva capitare, per i più “duri” una razione prima di cena; era l’unico neo che però non c’impediva di sentire dentro tutto quanto la festa ci avrebbe dato. Intanto, come base, la libertà, anche se quell’oretta passata in chiesa, diciamo, era accettata comunque. Eravamo fuori, dunque, e con un bel programma che derivava anche dalla stagione. Quelle brutte, per una magìa inspiegabile, me le sono dimenticate; credo siano finite in qualche scatola, poi persa nei due traslochi che i miei fecero. Infatti, quando presi possesso della domenica, era già grandicello tanto che il suo profumo a volte ancora lo percepisco mentre quello dell’inverno e dei suoi cugini è andato perduto. Si andava a casa, dopo la funzione, con qualche corsa, qualche presa in giro, scherzi, ma tutti noi eravamo presi dal primo importante accadimento: il pranzo.

Credo di ricordare abbastanza bene che, tra di noi, non ci fosse qualcuno grasso, salvo i robusti di costituzione; il movimento, i piccoli traffici, una dieta a tavola, erano uguali per tutti. Hai voglia di parlare di dieta mediterranea! Era già tanto se ne conoscevamo il mare, e dove fosse (ma sulla sua reale posizione non ci giurerei!), figuriamoci delle sue portate. D’altronde, il pesce era il piatto del venerdì, e la vigilia doveva essere rispettata. Ecco perché pescare con le mani nella Pescia, e prendere pescatelli o, miracolo!, un’anguilla rappresentavano un piatto prelibato, un’eccezione, alla tavola di tutti i giorni. Si partiva con i crostini di carne (chi poteva), e già la bocca si scioglieva dalla golosità; poi, un primo, una pasta, di solito fatta in casa, a mano: un tuffo nel piacere! Per secondo (c’era ancora tanto spazio nello stomaco), un coniglio o un pollo arrosto, animali di cortile, chi li aveva; o comprati da chi li allevava nell’aia: una delizia… Ma era, per me, il contorno che mi mandava in brodo di giuggiolo: le patatine fritte di Nonna Marietta! Da quei primissimi assaggi, le patatine fritte sono rimaste come un contorno indimenticabile tanto che ancora son presenti, e ne scrivo, come il cibo che ho preferito da subito, e che, purtroppo, ne ho trovate di simili ma mai più uguali. Insomma, era un bel mangiare; e forse, in fondo, anche una fetta di torta, anch’essa prodotta in casa, tanto che lo stomaco gorgogliava dal piacere.

 

Era domenica. La seconda parte era quella più movimentata, forse quasi la più attesa. Il ritrovo sul sagrato della chiesa, e da lì sciamavamo sopra il Giardino verso Pescia, mèta il Tondo di Chiari, percorrendo la stradella che oggi viene chiamata la “Via della Fiaba”, con presunzione perché questo vecchio tracciato, che era lastricato, partiva da Villa Basilica e finiva a Valchiusa, una piccola via commerciale e di scambio tra paesi, traffico che non esiste più. La mente, tacitato lo stomaco, si eccitava per il semplicissimo programma previsto. Urla, fischi, salti, scherzi; e profumi, colori, sensazioni; e quanto caldo, tanto da far arrossire le guance, oltre che sudare, e perdere e fermaglini che tenevano su il ciuffo ribelle dei capelli. Era domenica, pomeriggio, ed eravamo tutti del paese, o quasi, insieme nei campi, tra il grano, i fiori, l’erba, e fontanelle d’acqua fresca, quasi ghiaccia, così necessaria in quei momenti. Qualcuno portava una o due bottiglie d’aranciata S. Pellegrino; altri, qualche bottiglia di spuma – mica male -, ma com’era sapida l’acqua di quella sorgente, che abbeverava animali ed uomini, con generosità. Poi, una pausa. Nei cartocci che ci avevano fatti a casa (la carta gialla), una merenda; due fette di pane rafferma, e una di mortadella, tagliata fine. La mordevamo con ingordigia, così come le fette di cocomero che qualcuno più grande portava per offrirle ai compagni, e quanti semi volavano in aria! Perché c’era amicizia, tra noi. Una identità che ci accomunava anche se, come dappertutto, le “bande” rivali a volte si scontravano, e via coi galbuli, quei frutti dei cipressi, un po’ duri che, quando inocciavano la testa, erano piccoli o grandi bernoccoli.

 

Fuori dalla villa di Chiari, la nostra mèta, ci mettevamo a giocare in quei modi semplici e modesti come era la nostra vita quotidiana. Il sole, però, cominciava ad avere sonno tanto da voler tornare nel suo letto; ma anche noi ci sentivamo un po’ stanchi. Stanchi, ma soddisfatti, felici, di una gioia che non chiedeva niente di più di quello che avevamo. Il cielo cambiava colore, all’orizzonte, preannunciando la sera, e poi la notte. Così finiva anche quella stagione, come la domenica, con un giorno memorabile. Si cresceva, come il mondo che ci circondava. Non più fanciulli; ora, giovani, addirittura teen-ager, di cui non conoscevamo il suo significato. E così cambiava anche la domenica, il suo valore ed i suoi contenuti. Ora si stava preparando la “febbre del sabato sera”. Povero Leopardi! Da un lato, avrebbe gradito; dall’altro, profetizzava la caduta definitiva di quella festività. La modernità, il progresso; il benessere e le comodità. Prima eravamo camminatori; poi, le biciclette, i motorini e, infine, le macchine: un futuro pieno di conquiste, continuo, inarrestabile, veloce, troppo. Non abbiamo opposto resistenza, e ci siamo trovati nella corrente tumultuosa degli agi e degli sprechi, e della perdita di memoria di come eravamo. Ora, la domenica era scaduta ad un giorno qualsiasi, quasi. Ieri, tutto si fermava, tanto da ricordare – ma non ne sono sicuro – che chiudessero anche le cartiere. E, di più, fuori d’Italia, questo giorno era speciale tanto che la Gran Bretagna, pur non cattolico, blindava il settimo giorno e, addirittura, non si giocava nemmeno a calcio! Siamo arrivati ad oggi. Se diamo un’occhiata a ciò che abbiamo alle spalle, il paragone è quasi improponibile, ma non sono certo io quello che può farne un bilancio.

 

Porto solo le mie esperienze, ormai sotto la patina di una lieve, odorosa polvere che ancora sprigiona un leggerissimo, lontano calore. I miei vecchi riti domenicali sono andati in soffitta. Altri valori, altri modelli, altri obiettivi hanno preso il loro posto. Ma niente di grave; è la naturale evoluzione dell’umanità, che tende sempre verso traguardi ora inimmaginabili, fino a quello finale che potesse chiudere il cerchio della vita. Addio, dunque, ai riti ed all’usanze di allora. Alla dormita più lunga di allora. Alla camicia bianca domenica; all’attesa del pranzo e delle sue patatine fritte. Al riunirsi davanti alla chiesa, e correre, saltare, urlare tra i fiori e le spighe di grano: con esuberanza, ingenuità, candore, innocenza e quanta, tanta spontaneità! Tutto questo, ormai retaggio di tempi finiti, così come è deleritta la via “della Fiaba”, mai più frequentata dai villesi; inoltre depredata delle sue pietre, e abbandonata a sé stessa. E’ questo il destino della nostra Storia, ed è anche inutile ripercorrerlo. Oggi, i ragazzi come eravamo noi, avranno le loro ricordanze, e pochi studieranno ciò che siamo stati. Di certo, quei sapori che ci hanno accompagnato, non ci sono più. Siamo meno ignoranti di quanto lo eravamo allora, e tutti i paesaggi sono cambiati. Quindi, nessun messaggio in difesa di ciò che è stato, e di ciò che siamo stati noi. Però, però… Sfido chiunque a pensare che le patatine fritte da nonna Marietta possano anche lentamente assomigliare a quelle di oggi: erano troppo delicate, fragranti, saporite, troppo! In più, come si diceva una volta, fritte erano buone anche le ciabatte! Ma il problema rimane: non vuoi mica paragonare le ciabatte di oggi con quelle di ieri!

Era domenica. Era festa. Tanti, tanti anni fa …..