Inoltrandosi a piedi nella Val Troncea, braccio laterale della Val Chisone a monte del paese di Pragelato, ci si imbatte in una lapide bronzea che commemora una delle più gravi e meno note tragedie dell’Italia unita: uno di quei sacrifici che si consumarono in nome del progresso e dell’industrializzazione, una fiumana, l’avrebbe definita tale Giovanni Verga, che portò via con sé 81 giovani vite. Ma una fiumana di neve, in questo caso: un’enorme valanga che martedì 19 aprile 1904 si staccò dal versante settentrionale del monte Ghinivert e precipitò nel vallone del Beth, trascinando con sé uomini, animali e baracche.

Monte Ghinevert

Quell’inverno c’erano più di trecento minatori a lavorare a 2800 m di quota, dove era stato scoperto alla fine del ‘700 un ricco filone di calcopirite: si estraeva con picconi e dinamite, e se ne ricavavano rame e zolfo che venivano venduti soprattutto oltre confine, a Marsiglia. A fondo valle ci sono ancora i ruderi della fonderia della Tuccia; i minerali vi venivano portati con carrette trainate da muli o slitte guidate da donne e bambini; in seguito – quando arrivò l’elettricità grazie all’acqua del Chisone – con una teleferica, i cui resti sono ancora visibili più in alto. Gli operai erano quasi tutti sotto la trentina, e venivano dalle valli vicine, qualche volta persino da fuori regione; i turni erano massacranti – si lavorava anche d’inverno per 12 o 13 ore al giorno, le nevicate spesso erano improvvise, il cibo scarso e la paga misera; le baracche dove si dormiva in gruppo fredde e umide, con giacigli di paglia che non veniva mai cambiata. Solo alla domenica i ragazzi scendevano a piedi nelle località più in basso, come Laval, e spendevano qualche soldo nelle osterie, che proprio per questo motivo vedevano di buon occhio l’attività estrattiva del Beth: in qualche modo aveva portato un po’ di ricchezza a tutta la valle.

Fonderia della Tuccia

La minaccia delle valanghe era costante, e la paura non abbandonava mai i minatori, che si organizzavano a squadre per non trovarsi mai a lavorare tutti nello stesso punto e poter organizzare eventuali soccorsi.

In quella lontana primavera del 1904, attorno a Pasqua, le nevicate erano state insolitamente abbondanti; e mentre i più giovani scalpitavano per scendere a valle, intimoriti dal brutto tempo, i più anziani e esperti consigliavano di attendere nelle gallerie una qualche schiarita. Ma poco dopo il mezzogiorno del 19 aprile il boato di un tuono provocò il distacco di un’enorme massa di neve dalla cima alle loro spalle, e non ci fu scampo né per gli uni né per gli altri. Furono trasportati a valle per chilometri e chilometri, e soltanto dopo due mesi e mezzo, al completo disgelo, fu recuperato anche l’ultimo corpo. Settantaquattro delle vittime sono sepolte nel cimitero di Laval, non lontano dall’imbocco della Val Troncea; tra loro c’è un ragazzo di nome Alessio Faure.

Cimitero di Laval

Era morto sotto un’altra slavina caduta alcuni mesi prima, e senza la tragedia del Beth il suo corpo non sarebbe mai stato ritrovato. L’ottantaduesima vittima.

Ingresso Val Troncea

Camminando oggi lungo i sentieri della Val Troncea si prova una grande sensazione di pace, un’intima connessione con la natura incontaminata delle sue montagne. Eppure, poco più di cento anni fa quegli stessi luoghi sono stati teatro di un dramma spaventoso, di cui restano poche tracce sia nei libri che nella memoria collettiva.

Lapide Commemorativa

Tuttavia, uno sguardo attento alla lapide che ricorda quel giorno non può non suscitare la curiosità di sapere cosa accadde, quando “un’intera legione di operai” fu annientata, “confondendo nell’amplesso della morte il grido di pietà dell’Italia intera”. Ottantadue vite restarono sepolte sotto una coltre bianca. Un fatto storico che ne generò altri – la chiusura della miniera nel 1910, una crescente attenzione per la sicurezza nei luoghi di lavoro e le condizioni degli operai – non deve invece rimanere sepolto sotto la coltre polverosa del tempo e della nostra dimenticanza, per cui non c’è scusante: la Storia può rivivere solo se la si racconta, e benché non abbia mai aiutato nessuno a non commettere gli stessi sbagli del passato, può almeno fornire delle chiavi per interpretare quelli del presente.