Ho scoperto, dopo un lungo tragitto, che il tempo naviga con due velocità. Non sto ad interrogare filosofi o scienziati: è una semplice constatazione che, in questi ultimi anni, da catalogare come tante mie teorie legate alla scoperta dell’acqua calda, alle tante banalità. Il tempo trascorre, da sempre, alla stessa velocità; basta osservare, con calma, le lancette dell’orologio, o il diabolico telefonino, e tutto viene regolato su quell’andamento. “Che ore sono?”,  è la classica, spontanea domanda di quando – di solito – abbiamo un appuntamento, sperando di congelarlo perché siamo in ritardo, mentre quello, allegramente, se ne va per i fatti suoi. Sì, perché, in fondo, il tempo – di noi – non se ne preoccupa minimamente, e continua la sua corsa sicuro che niente e nessuno lo fermeranno. Agli inizi, da fanciulli, non lo abbiamo mai preso sul serio. In realtà, nemmeno capivamo cosa significasse.

“Forza, è tempo di tornare a casa!”, era il richiamo della mamma. “Uffa, proprio ora che mi divertivo!”, era la nostra risposta. Era il tempo delle more, quello senza pensieri se non il piacere di giocare con le palline di vetro, o cercare di costruire un aquilone; che gioia quando, dopo una breve rincorsa, quello ce la faceva a librarsi verso il cielo, e su, su, con l’orgoglio di aver creato un’appendice fantastica della nostra verde vita. Il tempo. Quante volte, da allora, lo abbiamo citato, sfruttato, anche insultato ma pure amato. E’ nato con noi, e diverrà un fedelissimo compagno. Iniziava la scuola, e così partiva la corsa con quello. La sveglia, la mattina; la prima campanella, e poi tutte le altre, di seguito. L’ultima, infine, meno male!, e di corsa a casa. Si mangiava velocemente (lo faremo per diversi anni) e, sempre di fretta, uscivamo di casa. L’appuntamento era con gli amici, e con i giochi, che terminava, però, quando scoccava il tempo per fare le lezioni. Che fatica, quelle!

Dov’era il piacere? Forse qualcuno, qualcuna, le faceva volentieri, ma io ero rimasto al “mio” aquilone, alla “mia stagione”, anche quando la pioggia picchiava sui vetri, e scendevano piccoli rii su quelli. Il tramonto era già arrivato e, con lui, il tempo per andare a letto, magari con lo scaldino sotto il “trabiccolo”, il “prete”, su di un materasso già sfiancato, come le molle che lo sorreggevano. Gli anni volavano? Forse, ma c’era la corsa a crescere, a diventare grandi perché, finite Elementari e Medie, o Avviamento, c’eravamo spostati in città, per chi ancora poteva studiare. Com’era grande la città! Qui, tutti, ma proprio tutti, correvano; quanta gente, quanti negozi, quanta sicurezza rispetto a noi paesani. Avevo sentito dire che il tempo era uguale dappertutto, ma ora – qui – mi sembrava più veloce di quello di casa mia, e m’invitava a rincorrerlo. Ecco cominciare, dunque, la corsa contro di lui, il tempo. Ah, beata gioventù! Non sapevamo di essere “beati” ma, sicuramente, partecipammo con passione alla scalata verso il benessere.

Correre, allora, sognando l’Alfa Romeo GT, la Lancia HF, la Jaguar E, che facevano luccicare gli occhi e animavano i nostri discorsi di provinciali. Ci si muoveva anche col treno, più veloce di prima, è ovvio, ma già si sviluppava l’era dell’aereo. Superato il timore di cadere, chi poteva lo sfruttava fino in fondo: “Non sai quanto tempo si risparmia, da Roma a Milano, da Pisa a Londra!”. E il tempo risparmiato? Quello, buttato via, magari in stupidaggini? Ma, “vuoi mettere …?”. Ecco come si cominciava a pensare al tempo più veloce tanto che, mentre lo si diceva, già mancava. Tutti, allora, correvano, o dovevano farlo, perché “le cose” da fare aumentavano giorno dopo giorno; così, anche il contadino, dotato di moderni mezzi meccanici, correva anche lui. Infatti, le primizie, ieri pochissime e perciò rare ma gustose, oggi sono abbondanti ma sciàpe, antipasto dei prodotti delle grandi coltivazioni: belle, colorate, lucide, senza nessuna ammaccatura e – orrore! – senza il buco di un verme.

Poi, l’invadente tecnologia ha dato il colpo di grazia di quanto rimaneva lento il passare del tempo. La durata della vita si allungava; la terza età si staccava dalla quarta; l’industria si era accorta che la parola “vecchio” doveva andare in soffitta, ed ecco allora settantenni, anche ottantenni, sgambettanti e sorridenti con l’ultimo “tipo” di dentiera, felici di fare ciò che in gioventù non hanno potuto o voluto. Perciò, ci siamo messi a correre, o rimessi a correre, un po’ tutti: diamine, è la moda, non lo dimenticare! Finchè arriva, senza un segnale preciso, la divisione del tempo, quella citata all’inizio, e come veniva calcolata. Si passava, quindi, più o meno lentamente, dal tempo che mancava a quello che avanzava. Cioè si scoprivano le due velocità, e c’era un po’ di stupore, una sottile delusione, forse un pizzico d’amarezza nel ritrovarsi a gestire il giorno in modo completamente diverso: due binari che, se si incontreranno, faremo fatica a capire. Dunque, ci si trovava di fronte al tempo troppo veloce ed a quello troppo lento; al tempo felice ed a quello triste; al tempo della gioia ed a quello del dolore; al tempo di sognare ed a quello di restare svegli; al tempo di correre ed a quello di camminare.

A volte, tutto così mescolato da rendere difficile, in questo modo, cambiare le abitudini, ma non si può sfuggire all’età che incombe. Mentre prima, con la lentezza, si riusciva a regolare i vari tempi, ora c’è in giro un po’ di stanchezza, un po’ di noia, una velata rassegnazione che appesantisce il passo. La sveltezza di ieri è un bel ricordo; qualche pausa momentanea nella memoria, poi recuperata, sembra un piccolo, modesto trillo di un campanellino. E’ il bivio normale cui tutti andiamo incontro. Fuori, però, tutto corre sempre più veloce; come dicono oggi, tutto è “smart” tanto che io, ingenuamente, pensavo fosse legato al nome di battesimo di una macchina. Affrontare bene questo passaggio significa riuscire a gestire la propria vita come erano soliti fare i nostri nonni e i nostri avi. Ieri, manco pensavi lontanamente di sederti su una panchina, ruminando i tuoi pensieri e coccolando le tue memorie. Oggi, ti viene quasi spontaneo, un po’ per le gambe che hanno perso il tono muscolare, un po’ perché non riesci a capire che senso abbia sforzarsi per cercare di rimanere in gruppo, il cui arrivo, comunque, non ti gratifica di niente.

E ti “scappa” pensare cosa significhi, quali obiettivi abbia, correre sempre, a piedi, in bici, in macchina, in treno: quando hai guadagnato un’ora, un giorno, ti pare un bel risultato ma, ricorda, subito dopo la gara continua. Così, arriva il momento di dire basta! accetti le due velocità, e non fai che ripeterti: “Bei tempi, ai miei tempi!”, senza vergogna, ma con un pizzico d’orgoglio, sapendo bene che né i passati né i futuri saranno tempi che vivrai. La regola del gioco, se la vita è un gioco, è quella che chi corre più velocemente, vince? Non è così, per me. Ognuno di noi ha il proprio ritmo, i propri tempi, finchè è libero. Il vero pericolo sta nel perdere la libertà, non nel tempo! Se vado del mio passo, sono il macchinista, l’uomo solo al comando. La minaccia, che è sempre dietro l’angolo, è quando altri t’impongono, adulandoti o obbligandoti, il “loro” tempo, il “loro” ritmo. Non mancano, purtroppo, esempi. Oggi, comunque, non si deve perdere tempo (ieri, venivano chiamati perdigiorno) perché quello è denaro, come se il denaro, la moneta – che presto toglieranno dalla circolazione – fosse la felicità dell’esistenza.

E’ la natura, se ancora ce la farà, la vera macchina del tempo; più ci si allontana da quella, più perdiamo le piccole, grandi gioie che ci ha sempre donato. Una farfalla colorata; un aquilone; un castello di sabbia; due trecce e un nasino all’in su. La Scuola Elementare e gli amici di allora; qualche risultato ottenuto con grandi sacrifici; una pacca sulla spalla; un sogno realizzato e tanti errori. Qualche lacrima; un po’ di pace.

Il tempo corre, e non è vero. Lui, sa tutto, conosce tutto; non rallenta né accelera: fa il suo corso, da sempre, per sempre. “Che bei tempi, allora!”, ma sono soltanto i ricordi che hai della gioventù, quando tutto sembrava lento, ma sicuro. Quando il mondo, e chi ti circondava, sorridevano con te. Siamo cresciuti con quelle esperienze; siamo diventati grandi adattandoci ai cambiamenti; abbiamo arato, e qualcosa raccolto. Erano tempi in cui ti potevi fermare, cogliere un fiore, annusarlo, e una scintilla di piccola felicità si accendeva dentro di te. Quelli, sì, che erano i tempi. Era pura poesia. Oggi, mi sembra solo un’arida prosa. Ma cosa posso farci? Non mi rimane che camminare, finchè potrò. Ormai ho capito che questo è il tempo di vivere, prima che arrivi … l’ultimo tempo.