C’era una cosa sola che faceva andare ai matti nonna ed era quando, mentre mi raccontava la sua vita – che era stata più avventurosa di quella del diavolo – fissavo come uno psicopatico quindicenne il pendolo in noce che avevamo in soggiorno, aspettando che suonassero le cinque. Ecco, lì, nonna poteva perdere in un attimo la sua proverbiale tranquillità, lanciandomi dietro accidenti, cristi, santi e madonne sul groppone, che volevo vedere voi al mio posto. E però nonna mi voleva bene. Pensate un po’ se le stavo sulle scatole; ma nonna, che era nonna, e che si era sempre comportata da signora in tutta la sua lunghissima vita, chiudeva gli occhi, scuoteva la testa e mi lasciava andare fuori giù a giocare.

Ed era bellissimo per me ragazzino correre tra i corridoi di siepe di bosso del nostro giardino dove, là in fondo, vicino alla fontana ed al cancello, mi aspettavano le amichette e gli amichetti. Ed io che speravo che ci fosse sempre Patrizia, che era bellissima già a quindici anni, ed io ero innamorato perso di lei. Perso. E nonna scommetto che lo sapesse. Nonna sapeva sempre tutto, tutto, quello che pensavo e che facevo.

Patrizia era la mia amichetta del cuore. Snella, intelligente, aveva una creatività che mi lasciava ogni volta stupefatto. Le davi un mazzetto di fiori, che io coglievo nei nostri campi, e lei, quasi per magia, lo intrecciava con quelle sue manine candide e ci faceva qualsiasi cosa le chiedevi: una volta, che fuori veniva giù un orribile acquazzone, le chiesi una corona da mettere sulla testa della Madonna che stava nella nostra cappella di famiglia. Accidenti, io le portai un bel mazzo colto da me e lei – Cristo mi accechi se non è vero – creò una sì bella corona che subito corsi a portarla a nonna.

Lei, che era tutta concentrata a fare una frittata di cipolle, chiamò la serva Gina a prendere il suo posto, ammonendola di non bruciarla. Nonna era tremenda in cucina con le nostre tre serve!

Allora lei si tolse il grembiale tutto impataccato ed unto e, mettendosi in testa una pezzòla nera che era lì accanto alla foto di lei e nonno, corse fuori, aprì la porta della cappella e si diresse verso la statua della Madonna, sulla cui testa delicatamente pose la corona con la stessa solennità di quando portava il pollo arrosto fumante in tavola la domenica a pranzo. Aveva le mani d’oro Patrizia, e tra tutte le mie amichette di quegli anni era la più bella. Quel giorno, la corona fatta da Patrizia fu lungamente ammirata da tutta la mia famiglia.

Eravamo in tanti a quei tempi a giocare a villa Mari, spensierati come certe nuvole che vagano per il cielo ed eravamo tutti più o meno belli, e ci piaceva quando il sole ci buttava in faccia i suoi raggi incandescenti e noi, ragazzini e ragazzine, stavamo a giocare nel giardino di famiglia, che era enorme, che tutti ci chiedevano come si facesse a tenerlo sempre in ordine, che ci si poteva dire messa ogni giorno.

Io lo sapevo, perché il sabato mattina, in estate, quando non andavo a scuola, nonna veniva in camera mia alle sei e mi buttava giù dal letto, forse dicendo anche qualche parola non proprio adatta ad un bimbo come ero io a quel tempo. Fatto sta che però io mi alzavo subito e dopo nemmeno cinque minuti ero già giù nella grande cucina dove, in un angolo, stava nonna, che mi preparava un misto di caffè buono ed orzo, ed io ricordo che lo bevevo con l’imbuto, perché nonna si era già spostata sull’uscio ad aspettarmi con indosso il grembiale nero da becchino, la falce per me, la frullana per lei, che teneva poggiata sul muro, e delle balle di juta, che ci servivano per raccogliere l’erbacce. Questo capitava a me ogni sabato mattina d’estate. Ma non ai miei fratelli. I miei fratelli non dovevano essere svegliati. I miei genitori erano stati chiari con nonna. Doveva svegliare solo me, che ero il più docile, cioè l’unico dei suoi tre nipoti che non le avrebbe risposto in modo sconveniente. Io ero il secondo di tre fratelli.

Non ho mai saputo perché i secondi sono meno preferiti dei primi e dei terzi. Questi sono i misteri della vita. Che te credi di essere benvoluto da tutti, mentre lo sei soltanto da pochi. O da pochissimi. A me andava bene così e stavo proprio bene con nonna. Che però se mi vedesse ora mi darebbe certi nocchini in testa che non vi dico.

Nonna ed io si partiva da casa e si andava a falciare l’erba, prima nel giardino, che il nonno di nonna aveva realizzato decenni prima, e poi laggiù, dove noi di solito si seminava il granturco, in fondo al fosso, che si era sul confine coi campi del Caralli, che erano per noi come parenti stretti.

Nonna principiava a tagliare l’erba colla frullana, mentre io, che ero non tanto esperto, avevo una piccola falce per pulire il fosso meglio che potessi. Ogni tanto veniva a controllare la situazione ed a me faceva piacere, perché non è che io sia nato colla falce in mano. Quando veniva da me aveva un pezzo di pietra lunga grigio scuro. Allora nonna prendeva la mia falce, sputava sopra la pietra e con gesti rapidi la strusciava sulla falce, di modo che fosse bella affilata. A me tutte le volte scappava da ridere. Dovevate vedere nonna quando sputava sulla pietra!