È passato il primo mese di scuola, e la situazione generale appare meno drammatica di come i soloni e le cassandre di turno volevano farla apparire prima della riapertura: se qualche falla nel sistema di contrasto al Covid c’è stata non è dipesa da errori del Ministero dell’Istruzione ma, semmai, da quelli del Ministero dei Trasporti, che probabilmente non si è mosso nella direzione giusta, che era quella di potenziare il numero dei mezzi pubblici per diminuire gli assembramenti dei ragazzi. I dati diffusi dal ministro Azzolina pochi giorni fa sono incoraggianti: alla data del 5 ottobre gli alunni positivi al tampone, e quindi in quarantena, erano 1492, pari allo 0,021% dell’intera popolazione studentesca, mentre i docenti contagiati risultavano essere 349, e il personale non docente ammontava a 116 contagiati. Questi dati emergono dai report che le scuole inviano al Miur per la rilevazione della situazione epidemiologica sul territorio nazionale, una delle tante misure adottate per avere dati costantemente aggiornati e quindi intervenire tempestivamente per impedire che le scuole diventino focolai di diffusione del contagio: cosa che infatti non è avvenuta, “se non in modo molto residuale”, come ha commentato il ministro durante un confronto con l’Istituto superiore di Sanità e il Comitato tecnico scientifico.

Da insegnante, pur consapevole che la situazione potrebbe peggiorare o cambiare in modo repentino, sono orgogliosa di come le istituzioni scolastiche si stanno comportando, dando una lezione di serietà a molti altri settori, politica compresa; vedo cosa accade nella mia, e parlo con colleghi che lavorano in altri istituti, e mi rendo conto che i protocolli anti-Covid sono rispettati con grande responsabilità da tutti. I ragazzi, nonostante i tanti proclami negazionisti che si leggono soprattutto sui social, hanno recepito l’importanza delle mascherine, e se le tolgono soltanto quando sono seduti al loro banco, ben distanziati gli uni dagli altri. Appena si alzano per andare in bagno, o per venire alla cattedra, le indossano con un gesto che ormai è diventato naturale. Lo vedo anche io quando esco di casa al mattino: prenderla è come afferrare telefono e chiavi di casa, fa parte di un’abitudine consolidata. C’è da riflettere, su questo. Chissà come ci sentiremo quando potremo farne a meno, tra molti mesi, temo.

Essere di nuovo a scuola, pur con tutte le limitazioni che l’emergenza impone, è bellissimo. Ho portato avanti la didattica a distanza con serietà, ma l’ho sofferta tanto, quindi tornare a fare lezione in presenza è stato come recuperare l’entusiasmo che avevo perso. E anche i ragazzi lo dicono: sono contenti di esserci tornati anche se non possono abbracciare i compagni, a ricreazione restano seduti al loro banco perché i corridoi sono off limits e le uscite sono scaglionate. Perfino le macchinette delle merendine e delle bevande calde non ci sono più, perché si trasformavano in luoghi di assembramento. Ci si arrangia con i panini portati da casa. Io mi sono comprata un thermos per il caffè, e viaggio con quello nella borsa dei libri. Ma va bene così. Certo, i problemi ci sono. Ci sono molti ragazzi impauriti, che appena sentono di un compagno raffreddato restano a casa perché ne hanno paura.  Sono eccessi di scrupoli comprensibili, talvolta doverosi, che però bloccano l’andamento delle attività, fanno perdere giorni preziosi. E ci sono falsi allarmi, ragazzi che attendono di fare il tampone per giorni e giorni e si trovano a casa in isolamento anche se magari non hanno niente, solo un banale raffreddore di stagione. Per loro le soluzioni sono poche.

Si va avanti un giorno alla volta, dicendo: anche oggi siamo qui, domani chissà. C’è una grande senso di precarietà che però fa apprezzare le piccole cose, dalla battuta al buon voto in una verifica. Forse ne avevamo bisogno tutti, di riscoprire la scuola e quello che significa. Ecco, è successo, abbiamo recepito la lezione. Adesso, per favore, che questo virus scompaia il prima possibile, per tornare a una normalità che non daremo mai più per scontata.