Si era appena entrati nel mese di gennaio 2007, un bel po’ di anni fa. Quattordici, mi dice la calcolatrice che ho sul cellulare.

Era la prima volta che ero a Londra. Certo, sapevo che c’era la regina e tutto il resto della ditta, e pure sapevo che il mio paesano Castruccio Castracani aveva trascorso in Inghilterra molti anni, e però conoscevo Londra solo tramite i libri: Thomas Tallis per primo, e poi le ultime lettere scritte da Thomas More alla moglie e alla figlia – e fu lì che capii che dovevo seriamente smettere di scrivere le mie scemate –, le teste reali cascate nel cesto sotto la mannaia del boia di turno, la dissoluzione dei monasteri, e molto altro.

Gli inglesi hanno una genialità immensa. Pensate solo al pezzo di merluzzo tuffato nell’olio bollente. Oppure al gin. Oppure alla bellezza infinita delle Spice Girls. Se non fossi nato agli Alberghi avrei voluto nascere a Croydon, così avrei giocato a nascondino tra le siepi di bosso con Kate Moss. Lì sì che sarebbe stata una vera pacchia monarchica, credetemi.

Trovai, in quel gennaio 2007, prima di andare a fare il Master e poi il PhD su a Durham, un ambito posto da lavapiatti in una pizzeria italiana. Mi pagavano duecento sterline alla settimana. Una pura follia. Ed il bello era che mi divertivo da matti. Lavavo i piatti, a mano, senza fermarmi. Ovvio, si vedeva lontano un miglio che non lo avevo mai fatto prima, ma ne uscii con tutte le ossa diritte e con un pelo ritto che voi non avete idea.

Ricordo che avevo il mercoledì libero.

Fu appunto un mercoledì che iniziò il pellegrinaggio ai musei pubblici londinesi. Che, come sa anche la mia amica che vende sui banchetti i calzerotti, sono gratuiti. National Gallery, Victoria and Albert Museum, British Museum, Tate Modern… .

A spregio, entravo, guardavo un Van Gogh, un Fontana, un arazzo del Cinquecento, un vaso etrusco e poi uscivo beato per poi rientrare dopo aver gustato il gelato della mia amica Laura, una bella figliola di Pienza che, a pochi metri da Trafalgar Square, se ci andate, prepara anche a voi un fantastico gelato, tre gusti tre sterline. Godevo a fare queste cose a Londra. Anche Pienza non è male, però; soprattutto gli occhi di Laura non sono male, ed ora però piango mentre scrivo, perché non li ho sfiorati come lei avrebbe voluto.

Laura, tra l’altro, ha i capelli più blu di Londra. Forse anche più blu del mare a Capalbio quando ci si va verso la fine di luglio. Laura è pazzesca, come dicono quelli che scrivono su Twitter e qualche volta anche su Facebook. Tifa Inter ed ecco perché è ancora più bella.

Insieme con i dieci mesi vissuti da militare negli anni 1998-1999 – chiudete gli occhi per un attimo ed immaginatevi il caporale Mari a Firenze –, i due minuti del primo bacio – ricordo dove, ma non quando e nemmeno con chi –, e gli otto giorni trascorsi all’ospedale a Pescia dopo l’operazione all’appendice – che avrò avuto più o meno quindici anni –, gli anni inglesi li annovero tra i momenti più belli della mia vita.

Fu Laura a farmi conoscere Jane. Un giorno, mentre mi spalmava sopra un cono mencio una roba – che ora non vi dico cosa mi sembrasse – che nemmeno una cavia si sarebbe degnata di assaggiare, mi disse se mi andava di conoscere Jane, che faceva la giardiniera a Buckingham Palace. Anzi, ricordo bene, mi disse che questa figliola era addetta alla potatura delle rose della regina. Le dissi di organizzare subito un incontro con questa Jane prima che la monarchia inglese rimanesse senza sovrana. Ho sempre amato le rose perché hanno le spine, come la nostra esistenza. Lo dice anche Ornella Vanoni.

L’appuntamento era davanti la chiesa di Saint Martin in the Fields, un luogo a me carissimo, perché lì avevo conosciuto mesi prima il mitologico direttore d’orchestra Neville Marriner. Mi garbava allora e mi garba tuttora mescolare musica e cuore. Sir Marriner dirigeva un’orchestra che faceva musica barocca di altissimo livello. E proprio lì, davanti a quella chiesa, incontrai per la prima volta Jane. Che è tuttora bella come un prato di crochi in fiore.

Mi ero già informato, ovviamente. Jane, che potava le rose della regina, era uno schianto di ragazza e poi aveva una cosa che non tutti possiedono. Come un’altra ragazza che conosco in Italia, Giada. La stessa bellezza ferrea ed orgogliosa. Entrambe enigmatiche e geniali. Jane oltre a potare creava acquarelli meravigliosi, mentre Giada, che è più alta di Jane, scrive in modo divino, che quasi mi umilia e mi fa scendere giù dagli occhi certe gocce d’acqua che voi non potete comprendere. Vorrei un giorno portare fuori a pranzo sia Jane sia Giada. Magari dalla Zaira. Crostini, affettati, carbonara, coratella, rostinciana e tiramisù. Credo che queste due figliole apprezzerebbero, perché hanno gli occhi liquidi di chi vede il bello. Che non sono io, intendiamoci, ma il menù della Zaira.

Insomma, quando vidi Jane insieme con Laura venirmi incontro davanti la chiesa volli subito diventare monarchico come lei. Mi avesse chiesto di diventare anglicano lo avrei fatto. Mi avesse chiesto di scalare la torre di Londra lo avrei fatto senza problemi. Per Jane questo e molto di più.

Perché Jane è monarchica come io sono interista. I migliori, appena si fiutano, sanno di esserlo. Jane ha un leggero strabismo di Venere, come Scarlett Johansson, Sabrina Salerno e Kate Moss, e forse è per questo che io non ho cancellato il suo numero di cellulare quando ho lasciato l’Inghilterra. Ma non posso darvelo, perché si arrabbierebbe. Sul comodino in plastica dura, che stava buttato là in un angolo, a fianco del suo confortevole letto a due piazze e mezzo, teneva infatti e, credo ancora, la foto della sua regina, come mia nonna teneva quella di papa Giovanni XXIII.

Io, quando si chiacchierava ignudi come i bachi, sorseggiando gin come fosse l’acqua della fontanella di Collodi, a bordo di quel letto che pareva fatto apposta per procreare, la punzecchiavo, raccontando le gesta magnifiche degli inglesi e però poi finivo a parlare della sua regina, la quale – non lo scordavo mai – versava ogni mese quasi due mila sterline sul conto che Jane aveva alla Barclays.

Credo fosse la filiale in Greek Street; Jane ama la Grecia, perché sotto sotto è bella come una dea greca, se no non sarebbe una mia amica. Jane è tuttora uno schianto di ragazza, anche ora che ha partorito cinque bimbe monarchiche. E pure il marito di Jane è mio amico. Lui però non sa nulla del letto a due piazze e mezzo. Altrimenti non sarei qui a scrivere.
Andrew è due metri di amicizia scozzese. È fantastico. In camera da letto, al posto della fotografia della Madonna, ha la bandiera dell’Inter, che gli ho regalato l’anno scorso. Manca poco mi spezzava le costole quando mi ha abbracciato per ringraziarmi. Gioca nella nazionale inglese di rugby, però non ditemi come si gioca a rugby.

Già è difficile essere dell’Inter. Mi manca solo di sapere come si gioca a rugby!

Ci sentiamo spesso Jane, Andrew ed io. Ma al di là di un “ciao Fabrizio” e di “che fa l’Inter?” non sa dire altro in italiano. Si parla in inglese. Sono entrambi tremendamente monarchici e proprio in questi giorni si parlava dell’intervista di Meghan ed Harry e mi hanno detto robe orribili, che non starò qui a riportare per carità di patria. Quando conobbi Jane, lei non faceva altro che parlare delle varie specie di rose che potava negli immensi giardini di Buckingham Palace. E lo diceva a me, che sono degli Alberghi, ed i miei per decenni hanno coltivato i garofani ed ora i girasoli. Ma io, che sono educato ed ho fatto l’asilo dalle suore e poi mi sono laureato con un prete, la ascoltavo con attenzione. Ricordo i nostri pellegrinaggi nei pub a Soho. Soho è la Gerusalemme dei pagani.

Lei beveva solo Guinness, mentre io il sidro di mele. Ero innamorato del sidro, ma soprattutto dei suoi capelli. La prima volta che ci conoscemmo li aveva viola. Il pomeriggio seguente erano rossi. Due giorni dopo erano bianchi. Ho amato Jane perché era come me: un giorno dicevo una cosa e due giorni dopo l’esatto contrario. Ed il bello era che portavo solide motivazioni a conforto di ciò che volevo dire. Sono nato repubblicano, ma forse è lì che ho capito che potevo essere anche nato monarchico. Ma non certo juventino o milanista.