Negli ultimi anni la scuola superiore italiana è andata incontro ad alcuni cambiamenti, che sebbene non possano dirsi strutturali hanno però avuto alcune conseguenze. In linea con le direttive europee, per esempio, fin dal 2006 si è iniziato a ragionare di quali siano le competenze chiave da trasferire, attraverso la scuola, allo studente, affinché diventi un cittadino pienamente consapevole dei suoi diritti e dei suoi doveri, ma soprattutto in grado di realizzarsi sul piano personale e professionale.

 

Nel 2018 il Parlamento Europeo ha approvato un quadro normativo di riferimento, individuando otto competenze – skills, in inglese – acquisibili soprattutto attraverso la scuola, ma non solo: un’alfabetizzazione funzionale, che consenta di comunicare adattando il proprio registro a contesti diversi, la conoscenza di più di una lingua straniera, la padronanza delle materie scientifiche e della matematica almeno di base, la competenza digitale, la capacità di “imparare a imparare” per trovarsi bene anche in contesti di apprendimento nuovi, l’educazione civica, la competenza imprenditoriale, che si traduce nella capacità di trovare soluzioni a problemi complessi, e infine la conoscenza del patrimonio culturale e artistico del proprio paese, e l’individuazione dei nessi e delle influenze reciproche che lo caratterizzano.

 

Su ognuno di questi punti si potrebbe scrivere un saggio, cercando di analizzare cos’ha funzionato e soprattutto non ha funzionato dal momento in cui la Scuola italiana ha attivato i percorsi per ottenere queste famose otto competenze chiave.
Talvolta, con poche risorse e molta buona volontà da parte degli insegnanti, sono stati fatti miracoli; talvolta ci si è scoperti drammaticamente indietro rispetto alle richieste che ci vengono dall’Unione, e ci si è, semplicemente, arresi.

 

Relativamente all’alfabetizzazione di base, ad esempio, riscontro che spesso le mie materie, Italiano e Storia, peccano di nostalgia verso un passato grandioso, il cui valore è indiscutibile, ma che fa ombra al presente: si leggono i grandi classici del passato, ed è giusto farlo, ma poco si insegna degli autori del XX secolo, e ce ne sarebbero di meravigliosi: Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante, Alda Merini. Per non parlare del cinema, un linguaggio universale che meriterebbe spazi maggiori nella scuola, che invece non trova, se non in qualche laboratorio extracurricolare delegato a qualche insegnante cinefilo. Con la conseguenza che i ragazzi non conoscono più le opere dei grandi registi del Novecento, e talvolta nemmeno quelle più recenti. Accade lo stesso per la Storia: spesso non si riescono a trattare se non per cenni il secondo dopoguerra e la storia recente, che poi sarebbe la più utile a capire l’attualità e la politica di oggi. Quindi, se mi si chiede cosa manchi nelle mie discipline direi che manca proprio il presente, che potrebbe essere affrontato solo con una modifica radicale delle programmazioni, e conseguentemente dei libri di testo.

Relativamente alle lingue straniere, ha per fortuna preso piede negli ultimi vent’anni l’insegnamento dello spagnolo come seconda lingua in molti istituti superiori o nella secondaria inferiore; ma almeno nei licei linguistici sarebbe interessante, come esperimento, introdurre un’alfabetizzazione di base anche in altre lingue; penso per esempio a quelle orientali, anche per favorire quei processi di integrazione e inclusione di cui tanto si favoleggia ma che troppo spesso rimangono lettera morta. Immagino, tuttavia, che sia un’ipotesi irrealizzabile, anche per la difficoltà stessa dell’apprendimento di questi idiomi.
Un altro territorio largamente inesplorato è quello dell’educazione musicale e artistica; la prima è presente, nella scuola superiore, nei licei ad indirizzo musicale, mentre la storia dell’arte per esempio negli istituti tecnici non c’è. Ed è un peccato che a una materia così bella e complessa sia destinato uno spazio così esiguo, se si pensa alle nostre meravigliose città d’arte, e al nostro patrimonio culturale che ben lungi dall’essere valorizzato troppe volte viene sottovalutato o addirittura dimenticato. La consapevolezza della sua importanza dovrebbe passare attraverso la Scuola, invece così non accade.

Un’altra disciplina che secondo me andrebbe ampliata, in linea con gli altri paesi europei, è l’informatica: a mio parere se ne fa troppo poca. I ragazzi sono in grado di destreggiarsi tra applicazioni e giochi, ma spesso non conoscono le reali potenzialità dei loro device, e li usano in modo superficiale. Programmi come Excel, Power Point, o lo stesso Word, richiederebbero più tempo per essere padroneggiati appieno, e lo si vede quando, al momento dell’Esame di Stato, i ragazzi producono tesine o elaborati digitali di scarsa qualità, o devono essere aiutati nel realizzarli. Di nuovo, gli insegnanti di informatica fanno grandi cose, ma spesso hanno poche ore a disposizione, oppure trattano questa disciplina soltanto nel biennio, quando invece è proprio nel triennio che sarebbe più utile ai ragazzi.

Insomma, più che parlare di quello che manca o che non viene fatto bisognerebbe parlare di tempi, risorse, programmazione: resto fermamente convinta che la scuola italiana sia una scuola di qualità, che lascia ampio spazio all’individualità dei docenti, e che sia proprio questa individualità a produrre i risultati più innovativi. Ma alle volte gli stessi insegnanti si trovano a navigare un po’ a vista, affidandosi al buonsenso e all’estro personale. Difficile colpevolizzare chi fa leggere Pirandello al posto di Camilleri, o Svevo al posto della Deledda: così vogliono i programmi ministeriali. È solo che talvolta sono i ragazzi stessi a percepire che nel frattempo il mondo è andato avanti, mentre la scuola è rimasta indietro.