Solitamente non amo molto Paolo Crepet, psichiatra e scrittore con incursioni frequenti nella sociologia e nella pedagogia; tra me e me ho contestato duramente, per esempio, le sue opinioni sulla didattica a distanza nei momenti più duri della pandemia da Covid-19, quando la definì una “grande schifezza” che isolava i bambini e per me, invece, rappresentava l’unico strumento per traghettare la scuola fuori dal disordine in cui era precipitata, seppur con mille limitazioni e difficoltà.

Eppure, tre settimane fa ha rilasciato al “Corriere della Sera” un’intervista in cui mi sono riconosciuta, e che mi ha spinto a uno di quei momenti di sana autocritica che si rivelano salvifici sia nel lavoro che nella vita familiare. Parlando del conflitto generazionale, che tutto sommato da un punto di vista psicologico è bene che esista, perché contribuisce a rendere i figli liberi dai genitori, parte con una battuta, affermando che mentre sua mamma non amava i Beatles, le mamme di oggi ascoltano i Maneskin insieme ai loro figli. E poi continua con questa riflessione: “Oggi i genitori vogliono essere più giovani dei figli, tutto questo appiattisce e amicalizza un rapporto che invece deve essere fondato sul riconoscimento dei ruoli. Non esiste più il capitano, il punto di riferimento. È forse il compimento del ‘68, dalla rivolta antiautoritaria. Ma ora una generazione che ha contestato i padri è diventata serva dei propri figliNon è capace di dire i no”.

Io ho due figli, di nove e tredici anni. Non ascolto né mi piace la loro musica, anzi, spesso nemmeno la conosco, ma non riesco nemmeno a trasmettere loro la passione per la musica che ascolto io, quella che mi piace considerare “seria”, quella che non passerà mai di moda e avrà sempre qualcosa da dire: Springsteen, U2, Guccini, De André. Tuttavia, relativamente ad altri aspetti della vita familiare, riscontro che tra noi c’è molta meno distanza di quella che c’era tra me e i miei genitori, e se qualche volta mi pare positivo, altre volte non lo è affatto. Non mi sono persa una partita di pallacanestro del più grande o un ricevimento con le maestre della più piccola; questo non succedeva, quando ero ragazzina io, o almeno non a tutti. Le gare di nuoto? Al massimo c’erano i nonni, a fare il tifo. L’esame di maturità? Ero sola a sostenerlo e ho visto i miei genitori soltanto alla sera, quando sono tornati dal lavoro, mentre oggi i ragazzi li hanno entrambi vicini, a meno che non siano loro a non volerli.

Certe gentilezze non erano previste, e oggi rivendichiamo la loro assenza come ciò che ci ha fatto crescere sani e forti, anche se allora magari ci dispiacque trovarsi da soli davanti alla commissione esaminatrice, o quando si usciva dall’aula.

ruoli si sono mischiati anche nelle famiglie; mentre per fortuna oggi è normale vedere padri che lavano i piatti, cambiano i pannolini ai figli e li portano al parco, un tempo non lo era; col padre quasi non si confidavano nemmeno i maschi, figuriamoci le femmine, e generalmente era percepito come una figura distante, anche quando non era autoritario. Oggi padri e figli vanno a correre e giocano a calcetto insieme, hanno un rapporto confidenziale, e sinceramente non me la sento di considerarlo come un difetto; riconosco però che rende più difficile il mestiere dell’educatore, a partire dal linguaggio.

Perché a un figlio che sente il padre usare una parolaccia difficilmente si potrà rimproverare di fare altrettanto; al massimo si potrà spiegare che ci sono contesti e contesti, ma sarà una difesa debole. E le madri? Non sono estranee a tutto questo. Le figlie hanno sempre giocato al travestimento, si sono sempre messe le scarpe col tacco o il rossetto della mamma; ma oggi si assiste forse al fenomeno inverso, al tentativo delle madri di voler assomigliare alle figlie, al fare a gara con loro a chi sembri più giovane. Vero è che avere 40 anni oggi non è come averli avuti cinquant’anni fa: la senilità per molti motivi inizia molto più tardi, nell’aspetto fisico come in quello emotivo, e anche questo fatto non mi pare così negativo, perché invecchiare non piace a nessuno. Invecchiare vuol dire non solo vedersi trasformare lentamente in qualcosa di diverso da quello che eravamo; significa, per me, soprattutto, prepararsi a dire addio alle persone e alle cose che hanno fatto parte della nostra vita.

Forse è proprio per questo che non me la sento di colpevolizzare più di tanto chi cerca di aggrapparsi alla giovinezza cercando magari di fare a gara coi figli: in fondo non è altro che l’ennesima illusione di fermare il tempo che passa, come eterni Peter Pan che si rifiutano di diventare grandi.

Stefania Berti