Colle è un nome proprio che può indicare diverse località; o un nome comune, piuttosto caratteristico. A volte credo di approfittare dell’ospitalità de “Il Cit­tadino1‘ quando scorro all’indietro il corto – o lungo- me­traggio della mia vita. In questo caso, lo spunto è na­to da un programma di Canale 6, See-ten, scoperto per caso. D’altronde, il mio interesse per la TV, per il giornale, per lo sport in generale, ed il calcio in particolare, ha raggiunto minimi storici. Cioè, senza rimarcare i “vecchi” valori, considerati ormai decrepiti, forse sono proprio un sorpassato, di un’età e di un’epoca che sta scivolando, inesorabil­mente, nella Storia d’ieri; con la stranezza, però, che nessuno mi ha presentato quelli “nuovi”, di valori: forse mi sono distratto.

 Il Colle di cui parlo è quello di Val d’Elsa, luo­go della mia nascita, casuale ma non tanto. Averlo rivisto nel programma di quel canale televisivo ha risvegliato la nostalgia che sgomita in me appena le giornate si fanno piovose, grige. In realtà, la durata di quel documentario è piuttosto breve: una manciata di minuti, e basta; la presentazione della città non poteva che essere assai parziale. Ma non è poi così importante un’immagine, una canzone, una cartolina in se stesse, se non per ciò che sono ca­paci di risvegliare dentro, rovistando nella scatola dei ricordi, che tieni vicino al cuore; quella di un passa­to che oggi pensi fosse più felice di quando lo hai vissuto. Un’infanzia ed una fanciullezza trascorse d’estate nella casa dei nonni materni; una libertà maggiore di quella che avevo a Collodi; un fiume e non un torrente; spazi più ampi; una cittadina e non un paese; scoperte ed avventure maggiori rispetto a quelle di sempre. Giornate piene, soleggiate, indimenticabili. C’era il fabbro che lavorava sotto casa, le cui martellate avevano una cadenza cronometrica; il “dimenticato” materasso di fo­glie di granturco, scricchiolante; il mercato in piazza Arnolfo: poi scoprirò, molto più tardi, l’architetto che fu; il campo di calcio, chiuso tra il pendio di una collinetta e la strada per Colle Alto, l’ “aringo”: per en­trare sul terreno di gioco, il sottopassaggio e, sul lato opposto, due giganteschi platani; S. Agostino, dove c’era un cinema, in cui vidi il cartone animato “Aladino e la lampada magica”, a bocca aperta.

 Prima dell’apertura della Superstrada del Palio, di cui si può dire tutto il male possibile senza timore d’essere smentiti, Siena si raggiungeva o col treno o con la statale. Via di Spugna era l’ultima appendice del­la strada che collegava la cittadina al capoluogo, e viceversa. Partiva dalla Stazione ferroviaria, oggi dismes­sa, in cui faceva capolinea, ed i cui binari sono scom­parsi sotto colate di asfalto e cemento; all’inizio, dopo il passaggio a livello, era larga, con negozietti a destra ed a sinistra. Poi, un’improvvisa curva in basso a sinistra, presso una chiesina, quasi la mozzava. Se invece si continuava, dopo pochi metri ci si trovava di fronte ad una struttura muraria che serviva a sorreggere un cancello, che io però ricordo di non aver mai visto. Oltrepassata quella, si restringeva; subito sulla sinistra, il piccolo casamento dove, in un appartamento, alitavano i nonni; un modesto slargo, e una chiesetta, a cui si accedeva salendo qualche scalino. Ancora avanti per circa 100 metri, e la strada si fermava a picco sul fiume; quella pendenza veniva chiamata la “balza”, forse di dantesca memoria; un piazzaletto con una cartiera la chiudeva, e tutto finiva Iì. Qui la vita brulicava, da mattina a sera: popolo minuto. Tutti si conoscevano, si chiamavano, si salutavano. Sotto questo ultimo tratto di via di Spugna, scorreva una gora.

 C’erano le cartiere, allora, come da noi. Forse, qualcuna è rimasta, e proprio queste spostarono la residenza di nonno Anchise. Lui ci lavorava; c’era bisogno di mano d’opera esperta, e si trasferì, da Collodi, proprio a Colle, con la famiglia, la sua: là rimase. Le gore. Chi ha lavorato in quell’industria, le conosce bene; il loro percorso è intervallato da luce e buio : un po’ all’aperto, spesso sotterraneo. Annualmen­te, nel periodo estivo, le cartiere si fermavano, per manutenzione. Credo lo facessero per una settimana, dieci giorni; in questo breve periodo, s’apriva la pesca “sotto la strada”. Il gruppetto di ragazzini che abita­va in quel pugno di case mi accolse volentieri, e mi trascinò in quell’avventura: fare amicizia, era facile, non c’era la TV. Avventura sì, perchè, ripensando a quei momenti, un po’ matti lo siamo stati, e forse anche imprudenti. Il reticolo sotterraneo si sviluppava per due-tre cento metri, per lo più al buio, interrotto da lame di luce provenienti da piccole aperture laterali della strada. L’acqua utilizzata dalle macchine veniva dall’Elsa: si poteva quasi bere, allora; e, ovviamente, trasporta­va, con sè, anche i pesci, tanti, veramente tanti. Nel momento in cui le macchine venivano fermate, e l’acqua deviata, la gora, a poco a poco, si prosciugava, lasciando dietro di sé bozzi più o meno larghi, più o meno profondi. Era stata opera dell’uomo, quel percorso: cascatelle e curve avevano un loro significato; i detriti era­no, in gran parte, rena e ciottoli, e pochi quelli uma­ni.

 Così, un gruppetto di 5-6 ragazzi, attraverso un passaggio proprio sopra il fabbro, appena sotto la strada, si preparava alla “pesca”. Fui consigliato di portare un retino, quello per le farfalle, e un secchio: tutto quiIl retino lo capivo; il secchio, un pò meno. C’erano le scarpe? Proprio non ricordo. Tutti sotto, con emozione e tensione, almeno per me. La “strategia” era semplice: occupavamo tutto lo spa­zio in larghezza della gora, spesso curvi, e controllava­mo ogni chiazza d’acqua, e lì si pescava: dalla sua larghezza, dipendeva il numero dei pesci catturati. Giù il retino; su, e si rovesciava il contenuto nel secchio: in­credibile la quantità catturata! Anche con le mani, tanto bassa era quella. Acqua che, giorno dono giorno, diminuiva, si assottigliava. Dopo le pozzanghere, rimanevano le cascatelle, quelle che prima erano troppo profonde, impossibili da perlustrare. E lì c’erano quelli più grossi, i pesci che “facevano” la storia dell’estate! Oneste battute, che io ricordi, furono tre o quattro perché, dalla prima, diventò un appuntamento che ci legava per 10-11 mesi: con il pieno dell’estate, venivo dai nonni, e loro mi aspettavano, ci aspettavamo.

 Sono passati gli anni, tanti. I nonni se ne sono andati, anche qualche zio. Tra cugini, la distanza pesa. Via di Spugna non è più la stessa: è diventata anonima, senza calore. L’Elsa, la sento lontana; il vecchio, mio carissimo campo sportivo (c’ho giocato!), un parcheggio e così sia. Le gore, lì erano, e lì sono rimaste, ormai sconosciute ai ragazzi di oggi, impegnati nel vivere -troppo- avventure virtuali. Ritorno malvolentieri a Colle. Tendo, non so se è normale per altri, a ricordare ciò che è stato, e non gradire ciò che è. Sarà l’età. Però, nelle mie furtive, intime visite in S. Francesco, non posso non fermarmi davanti alla Cappella Cardini: provenivano da Colle di Val d’Elsa, erano colligiani. Lo sono stato anch’io, nell’epoca d’oro della mia fanciullezza; e, un pochino, con un pizzico di profonda malinconia, tale mi sento ancora.

                                                                                   Franco Corsetti