È passato più di un mese da quel 5 marzo in cui la didattica in presenza è stata sospesa in tutte le scuole di ogni ordine e grado, e a questo punto si può provare a fare un primo bilancio. Che l’anno sia stato salvato, in una situazione di tale gravità, è comunque già una buona notizia. La qualità di ciò che è stato fatto e la valutazione dei risultati ottenuti riempiranno probabilmente le pagine dei libri di storia tra qualche decennio. So di far parte di una categoria professionale spesso oggetto di critiche, molte delle quali, se posso dirlo, ingiuste. Noi per molte persone che vivono la scuola solo dall’esterno siamo quelli delle 18 ore di lavoro, dei tre mesi di ferie, dei voti attribuiti a casaccio, delle simpatie e antipatie personali che influenzerebbero la nostra capacità di giudizio. Non è questa la sede per smontare uno per uno i luoghi comuni che aleggiano attorno al mestiere dell’insegnante: è quasi certo però che le critiche non si siano interrotte affatto durante queste settimane, semmai si saranno incrudelite. Se devo parlare della mia situazione non posso dire che stia lavorando più o meno rispetto a prima: soltanto, lavoro in modo diverso, con minor gratificazione e con gli occhi rossi alla sera per il tempo che passo davanti al pc. Spesso mi trovo a parlare con un monitor al di là del quale non vedo i volti dei miei studenti, che preferiscono tenere le telecamere spente nonostante le mie sollecitazioni; o perché si sentono in disordine e non vogliono farsi vedere dai compagni in pigiama o spettinati, oppure, semplicemente, perché in questo modo possono alzarsi, abbandonare la lezione e io non me ne accorgo. Mi capita spesso di porre a qualcuno di loro una domanda: e non arriva dall’altra parte alcuna risposta, segno che in quel momento non c’è nessuno. Certo, sento sempre ripetere che la colpa è del microfono guasto, o della cattiva connessione, ma inizio a non crederci più, e purtroppo inizia a importarmene sempre meno. Perché vedete, didattica a distanza o no, noi insegnanti non siamo macchine; e se non c’è un ritorno, se abbiamo contezza del fatto che l’impegno che ci mettiamo non viene ripagato, alla fine ci demoralizziamo anche noi. Continuiamo a lavorare, ma ogni giorno qualcosa si spegne. Poi certo, ci saranno sicuramente i docenti che se ne sono approfittati e stanno vivendo questa quarantena come una sorta di vacanza forzata, non lo metto in dubbio. Come ci saranno persone che non fanno il proprio dovere in qualsiasi categoria professionale, sia ben chiaro. La tecnologia digitale non piace a tutti, e non vorrei che il non saperla usare diventasse un pretesto per non fare lezione. Un conto è inviare ai ragazzi le indicazioni con le pagine da studiare sul libro e gli esercizi da svolgere, un conto è tenere una video lezione e portare in qualche modo avanti il programma, cercando nel frattempo di coinvolgerli il più possibile: lo chiamano feedback, e se non ritorna il nostro lavoro diventa inutile. Senza voler giudicare chi non si comporta bene (o sì?), penso che noi insegnanti dobbiamo fare la nostra parte, anche imparando ad usare degli strumenti con cui due mesi fa non avevamo magari alcuna confidenza. Non dimentico mai che mentre io valuto i ragazzi per quello che imparano loro stanno valutando me per come glielo insegno: e vorrei che tra vent’anni pensassero a me in termini positivi. Non come la prof che ai tempi del Coronavirus si è defilata e li ha abbandonati a se stessi su una nave che rischiava di affondare, ma come quella che, nonostante gli errori e qualche arrabbiatura, almeno ci ha provato. E con me ci hanno provato i miei colleghi, che non vedo l’ora di riabbracciare: la mia scuola, e non lo dico per farle pubblicità ma perché vedo coi miei occhi quel che sta succedendo, ha saputo riarrangiarsi in poco più di tre giorni, e dal lunedì 9 marzo molti di noi erano già operativi con la didattica a distanza. Non è sempre facile, i momenti di sconforto arrivano per tutti, ma ci stiamo provando. È il nostro modo di combattere, su un fronte che senz’altro ha causato molte meno vittime che nelle corsie degli ospedali, ma che alla lunga si rivelerà altrettanto importante.