di Arianna Celli

Quale Europa vogliamo? Ce lo chiediamo soprattutto quando, in periodi di crisi, il legame che tiene uniti gli stati europei sembra vacillare. Questa domanda ne sottintende un’altra: che cos’è l’Europa? Rispondere è complesso, ma a me piace pensare che l’Europa sia la sua cultura, nel senso più inclusivo.

Era il 20 marzo 2000 – io non ero ancora nata– quando la Commissione europea riunita a Lisbona elaborò un piano strategico che poneva tra gli obiettivi primari dell’Unione «una società della conoscenza più competitiva e dinamica in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale». L’Europa, quindi, essenzialmente come una «società della conoscenza». Del resto, è in Europa che è nato il sistema scolastico moderno. Proprio nel periodo solitamente considerato più buio, il Medioevo, le Università hanno per la prima volta creato una cultura unitaria, fatta di uomini di nazionalità diverse uniti in una comunità intellettuale.

Se la condivisione della cultura, intesa come patrimonio convissuto, è l’origine e, sperabilmente, il destino dell’Europa, allora tanto più rilevante diventa l’esperienza di studio – e di vita – all’estero. Da anni la scuola italiana predispone piani di mobilità internazionale, a partire dal programma Erasmus, che hanno come scopo la creazione di quella repubblica delle lettere che gli intellettuali europei immaginavano già nel Rinascimento. Tra le esperienze possibili, quella dello scambio è tra le più fruttuose: a livello didattico, certamente, ma anche e soprattutto a livello umano. Lo scopo della Scuola non è forse la formazione della persona nella sua interezza?

Frequento il liceo linguistico, sono ormai alla fine del quarto anno, e mi rendo perfettamente conto di quanto l’apprendimento della lingua straniera sia indispensabile. Più precisamente, seguo il percorso ESABAC che permette di conseguire simultaneamente il diploma di Esame di Stato e il Baccalauréat. Mi preme sottolineare che solitamente l’ESABAC è presente sono nei centri più grandi: che si trovi anche a Pescia è un indubbio vantaggio – le alternative più vicine sarebbero state Lucca o Prato – e conferma l’indispensabile legame tra Scuola e territorio sempre più centrale nelle riforme dell’ultimo decennio.

Da quattro anni il mio Liceo mette a disposizione uno scambio interculturale con il Lycée du Parc Chabrières di Oullins, un comune di circa 26.000 abitanti gemellato con Pescia – ancora il territorio! Lo scambio non è uno scambio semplicemente di persone – come ci ripete spesso la referente del progetto, la prof.ssa Fantozzi – ma di sentimenti e di ideali; uno scambio di volti, di lingue, di affetti, in cui due mondi diversi si rendono conto, fattivamente, di far parte dello stesso identico mondo.

Era il 14 febbraio quando io e i miei compagni abbiamo incontrato per la prima volta la nostra – o il nostro – corrispondente francese. Può risultare banale, ma ognuno di noi era pervaso da sensazioni contrastanti, un miscuglio di curiosità, imbarazzo e tanta voglia di fare la sua conoscenza. Fu dai primi “bonjour!” che iniziò una corrispondenza destinata a durare nel tempo oltre ogni distanza. Durante la settimana di convivenza, ragazze e ragazzi inizialmente accomunati solo dall’essere coetanei sono diventati compagni di viaggio, confidenti, amici e, perché no, complici. Sta proprio qui il potere degli scambi, la facilità con cui si entra in confidenza con un coetaneo è dovuta alla comunanza di interessi e intenti: la passione per la propria cultura e il desiderio di trasmetterla, nell’attesa, naturalmente, di ricevere altrettanto. È un po’ come guardare l’Europa dall’alto di un satellite e seguire una linea tracciata tra il centro Italia e la Francia del sud, tra Pescia e Oullins, tra il mio cuore e quello di Juliette, così come tra tutti gli studenti del mondo che riescono a mantenere una relazione a distanza grazie a questi progetti. L’unico rammarico è che l’emergenza sanitaria ha interrotto il progetto: alla settimana degli studenti francesi in Italia, avrebbe dovuto far seguito la nostra in Francia. Ciononostante, l’impronta su di noi è indelebile e non sarà vanificata dalla distanza.

È nella corrispondenza di Erasmo, di Leibniz, di Voltaire che è si è generato l’embrione dell’europeismo; è nei contatti, nei messaggi via mail e whatsapp, nelle conversazioni fatte e in quelle ancora da fare, nelle esperienze vissute insieme che noi sperimentiamo il sentimento dell’unione fra paesi e l’appartenenza allo stesso grande mondo. Nelle pagine del Politecnico, quando ancora non esisteva l’Italia, Cattaneo ne immaginava già la necessaria vocazione europea: «La nazione degli uomini studiosi è una sola – scriveva nel 1839 –; è la nazione di Omero e di Dante, di Galileo e di Bacone, di Werner e di Linneo, e di tutti quelli che seguono i loro esempi immortali. È la nazione delle intelligenze, che abita tutti i climi e parla tutte le lingue. Al di sotto di essa sta una moltitudine divisa in mille patrie discordi, in caste, in gerghi, in fazioni avide e sanguinarie, che godono nelle superstizioni, nell’egoismo, nell’ignoranza, e difendono l’ignoranza stessa. L’intelligenza si muove al di sopra di questo caos»

L’accoglienza non si limita ad offrire un alloggio o un’occasione di viaggio, ma permette un arricchimento che non potrebbe essere raggiunto esclusivamente attraverso i programmi disciplinari; è un’apertura all’altro, il riconoscimento del volto dell’altro e la scoperta della comune appartenenza alla «nazione delle intelligenze» o alla «repubblica delle lettere». Non vedo altro destino per l’Italia se non quello di tenersi all’unisono con un’Europa i cui popoli, abbandonati vecchi egoismi e rancori e abbracciati gli interessi comuni, si facciano uno specchio dell’altro. Gli scambi sono uno una delle trame dell’ordito che tiene insieme l’Europa. In questi ultimi giorni di scuola, studiando Hegel sono rimasta affascinata dall’idea di unità che pervade il suo pensiero – «l’io che è noi e il noi che è io» – e che vede l’inizio della civiltà europea in una condizione di concordia spirituale originaria; il successivo sviluppo storico non è stato che un faticoso tentativo di recuperarla. Immagino, per il futuro, la riconquista di questo senso di appartenenza in un’ottica democratica, in cui le differenze non sono annullate ma superate in una sintesi comune. Questo mi dicono le lingue: che l’originaria lingua prebabelica non è mai stata veramente perduta; si è solo mascherata nei molteplici idiomi. Alla luce dell’esperienza che ho maturato nei miei anni liceali, posso testimoniare appieno il valore degli scambi, intesi come esperienza vissuta totale, e affermare a gran voce, anche a nome dei miei compagni, che questa è la strada da percorrere. Grazie a queste opportunità di lingua e civiltà vissuta, io sono diventata cittadina del mondo.