Si comincia a star bene, fuori casa, dopo cena. La sera è ancora impregnata di luce, con un cielo che ricorda vagamente l’azzurro, e qualche brandello di nuvole bianche si tinge di un pallido rosa pastello, ultimo messaggio di un giorno che se ne va, dolcemente. E’ la bella stagione – finalmente!- alla quale mi abbandono senza opporre resistenza, e rimane nel cassetto la maglia di lana: era l’ora! Il vento è minimo; solo una bava anche in alta quota, tanto che tutto sembra fermo, immobile, come sono io, in attesa, pacata, che accada qualcosa: un suono, un movimento, un moto dentro che richiami una memoria. Indefiniti rumori giù, in basso, che scandiscono il tempo, il mondo che gira, il moto perpetuo di millenni di vita.

E’ una delle ore più belle di questa stagione; bella come il primo mattino che le persiane, gli avvolgibili, non riescono a frenare il chiarore dell’alba che annuncia, nel torpore del dormiveglia, chi ancora cerca di resisterle. Suoni soffusi, pigri, più forti, meno forti: un nuovo giorno è in arrivo, con qualche speranza, con qualche rinuncia. Primo mattino, prima sera: due momenti dolcissimi, che entrano dentro senza fare tanto clamore; anzi, ti prendono prima l’udito, poi l’odorato e, infine, la vista: una progressione che emoziona senza che tu lo voglia. La mente se ne va, senza briglie, sena traguardi particolari. Di solito, dopo aver superato tutte le voci che si affollano dentro, si riesce a mettere ordine; allora, comincia la solita danza di ciò che è stato agli inizi, e di ciò che vorresti fosse stato. Cammino lentamente, senza fuori. Cerco di far ancora tesoro di quel che mi viene in mente: è difficile mettere d’accordo cuore e testa, ma è un esercizio che, con un po’ di pazienza, riesco a conciliare. Certo, ora è più facile andare indietro che non in avanti: il “grande balzo” degli anni ’60 e ’70 è alle spalle, ed è spontaneo che un tenero rimpianto faccia capolino fra i capelli, che mi dicono bianchi, e che accetto tranquillamente. Prima, erano più folti, più spumosi, anche più ribelli nonostante che quest’ultima qualità, o difetto, non mi abbia abbandonato. Erano biondi, e giovani come me. Non li curavamo maniacalmente come usa oggi; il fono è stato un aiuto successivo, e poi si cercava una piega, uno stile, un ciuffo o una riga.

Tutto questo passò un po’ di moda quando apparvero i “capelloni” americani, con i calzoni a zampa d’elefante. L’aria era frizzante, allora, e non ricordo di aver sofferto il freddo al quale, ormai, mi sono quasi arreso. Stamattina stavo benino; sentivo l’affacciarsi del caldo anche se il sole era spuntato da poco; stasera, il calore mi è rimasto ancora dentro, e me lo godo con pacatezza. Tutto, ormai, è sereno, lento, riflessivo come la stagione che vivo. Ricordo, quando potevo, il clima di prima mattina al mare; pochissima gente sul bagnasciuga, spesso anziani, tutti raccolti nei propri pensieri. Un passo lievemente svelto perché si sentiva che la temperatura aveva bisogno di essere alzata dai muscoli delle gambe. Il leggero sciabordìo dell’acqua, che si spengeva dopo pochi centimetri sulla sabbia della riva. Mica come quei cavalloni di un mare su di nervi che cercavano di raggiungerti, di ghermirti, di trascinarti con loro, lontano, giù, nel profondo.

Una prima mattina calma, pettinata come i tuoi capelli, messi in ordine con un po’ d’acqua, tranquilla come raramente sono stati questi ultimi tempi. Ai bordi del mare, i resti ed i relitti di una nottata abbastanza pacifica; di solito qualche guscio di arselle, qualche piccola conchiglia, alghe ancora verdi. Inseguire un pensiero che non riesce a prendere corpo come quando c’impegnavamo a costruire castelli di rena: un’ondata più lunga, e tutto si cancellava, ritornando ciò che era stato. Ma non mollavamo; si provava e si riprovava, non come ora che gli acciacchi e la voglia t’impediscono di ritornare ragazzo. Ma il sole saliva; i bagnanti cominciavano a prendere possesso degli ombrelloni; il silenzio marino era rotto, e la giornata sfornava la parola d’ordine: oggi tutto è bello! Si rinviavano i pensieri dopo che il sole, anche lui, si stancava del chiasso degli stabilimenti e, facendosi arancione, scendeva pigramente nel mare. Così come, pigramente, gli stessi “pensatori” del primo mattino, ritornavano sul bagnasciuga, però non con i medesimi pensieri. In questo calare lento della luce, affioravano nella mente e nel cuore le stagioni passate, che si confrontavano con quella presente, e si affacciavano, timorosi, con un entusiasmo piuttosto modesto, a quelle di domani. Domani, che sarà domani?

Ormai rimango dell’idea che si debba ragionare giorno dopo giorno perché oggi, ora, questa è la soluzione migliore, quella spontanea. Si accendono, giù nella valle, le prime luci. Case e strade diventano sempre più indistinte, mentre il cielo passa da un azzurro cupo ad un blu, che si perderà poi nel nero. Qualche stella errante, su nel cielo, e la luna che continua il suo cammino, più o meno visibile. Il mondo che va, come sempre, da quando lo conosco. Da ragazzi, no. C’era l’abitudine, dopo cena, di ritrovarci insieme per giocare. Alle fioche lampadine, ci divertivamo a “nascondino” con tanto entusiasmo, tanta gioia, qualche grido di stupore, o di rabbia. Diversa gente passeggiava; altri, nei bar, anche quelli con biliardo e carte, che eccitavano i concorrenti. Mi ricordo tutto con tanta incertezza, come brani dei films di Ridolini, che si muovevano a scatti, velocemente, e si concentravano – ed erano comprensibili – nelle battute, negli incidenti del protagonista.

Ricordo serate così, probabilmente tutte uguali, perché il ritmo era quello, come quello dei gruppetti di adulti che “tiravano” le somme degli accadimenti giornalieri parlottando quasi sottovoce. Sentivo che c’era pace, in giro, anche se non lo capivo. E’ vero: qualche volta alzavamo gli occhi al cielo, ma si conosceva solo la luna e il sole. C’era una scarsa conoscenza delle stelle, meno di quella Polare, quella che indicava sempre il nord, ci avevano detto; però, il problema era che quasi nessuno conosceva i punti cardinali. Eravamo ignoranti? Eravamo figli, forse gli ultimi, di un’epoca che stava soccombendo alle mirabilie delle nuovissime scoperte, anche se le automobili già si erano affacciate da noi. Non ho memoria ci fosse un segnale che ci costringesse a rientrare a casa. Lentamente, la nostra compagnia perdeva un elemento, e ci faceva capire che tra poco sarebbe tutto finito. I pochi resistenti, con un urlo o con uno scapaccione, capito l’antifona, si arrendevano all’evidenza. Sì, eravamo un po’ stanchi, eccitati dalle corse, dall’evitare di essere scoperti, dal desiderio di vincere. Poi, come in tutte le compagnie che si rispettino, c’era sempre il più debole, il più lento. Senza vergogna, né rimorsi – allora – ce ne approfittavamo, ed era quello che spesso perdeva, e si lamentava, e noi ridevamo, allora. Povero caro, vecchio amico!

La vita ti è stata matrigna per tutte le ingiustizie che hai subito. Ma eravamo piccoli, non capivamo; al massimo c’era da pagare la penitenza: dire, fare, baciare, comandare … E sbocciavano, di contro, i primi rossori sulle guance. Non si potevano trattenere perché erano così spontanei ed ingenui che si presentavano senza avvisi, ma con un pizzico di vergogna. Certo, eravamo sprovveduti, candidi, e quella spontaneità, anno dopo anno, si cercherà sempre più di nascondere, di soffocare. Perché i grandi, no!, non possono arrossire. I grandi devono fare i grandi, e guai se hai conservato alcuni retaggi dell’infanzia! Ora, che siamo vecchi, dov’è finita la vergogna del rossore sui pomelli del viso? Dove l’abbiamo cacciata? Siamo sicuri che siamo diventati migliori rispetto a quando il mondo, la nostra vita, cominciava e finiva in un pratino, in una piazzetta, in una gitarella per i campi di grano, con due fette di pane e una di mortadella? Com’era buona! Le mani poco pulite, la polvere, un po’ di sudore; forza, ragazzi: tra poco si arriva alla fontanina! Bere, con le mani a coppa, a garganella, quell’acqua pura, fresca, dolce, chiara. Dove sei finita, fontanella dissetante? La notte incombe. Ritorno a casa, anche se conosco a memoria la via. Nessun cinguettio, nessun rumore, tante luci accese, giù, nella valle. E’ ancora abbastanza caldo. Riprendo lentamente il cammino perché scende l’oscurità, anche sui ricordi. C’è una stella tremula, lassù, che pare mi saluti. Sono certo che tenera sarà, questa notte.