Trascrivo qui alcuni brani di una Cronica terræ Pisciæ, scritta sul finire del secolo XIV, di cui si conserva copia di poco posteriore presso la famiglia P. di Chiodo, che qui ringrazio per avermi messo a disposizione sì prezioso materiale storico-letterario.        

 […] Al nome, laude e gloria, sia della trinità individua sia dei santi Abdo, Senne e Dorotea, protettori e protettrice della terra di Pescia, diogesi di Lucca ma Fiorenza era la dominante, do principio, io messer Iacopo de’ Pizza, notaro della terra di Collodi, a queste note sparse, cominciate nell’anno MCCCLXXXVIII, e prima per che cagione mi muovo a scrivere quello che si farà massimamente in nelle terre di Pescia, Veneri e Alberghi, cominciando l’anno MCCCXL. […].

E fu che principiò l’aria a guastarsi che veniva da dove more il sole, e l’aria era sì corrotta e guasta che ogni dove l’uomo andava a fuggire la morte, o per le prata o per i colli o ver le montagne alte e lontane da’ luoghi abitati, sempre era dietro a lui a rincorrerlo per prenderlo, che quasi pareva ad alcuno di sentire la voce della morte, il respiro suo e pure l’affanno suo, dacché, come dicevano di que’ preti e frati, se la morte decide di prendere un’anima niuno può mettersi contrario; la morte arrivava anche di giorno col sole e tutti furono meravigliati perché credevano solo la notte essere amica della morte, ma la morte c’era sempre, era ovunque, dovunque, anche nell’acqua, e questo si vide perché i pesci che prima stavano bene ora con la morte infin dentro l’acqua stessa morivano tutti senza dare possibilità di essere mangiati. La morte rivava fin dentro la lisca. Qualcuno diceva che la morte la portava il vento e infatti molti scappavano pure dal vento perché dicevano che la morte era lì; la morte guardava dall’alto, la morte camminava infin dentro le nostre case e veniva a guardarci e a salutarci e infine a prenderci con forza, come fa il contadino quando stacca la mela dal ramo.

Tutti sentivano la voce della morte, tutti avevano la morte che correva dietro le spalle; vi furono molti che diedero di matto perché sentivano notte e dì la voce buia e cupa della morte che tutti voleva per sé. Le strade di ogni villa, città, borgo, castello di Valle di Nievole mandavano eco delle strida della morte che alcuni vedevano correre in groppa a cavallo bizzarrito brandendo una frullana a modo di bandiera. Era moria d’anguinaie e altre pestilenze, in nella quale morirono molti venerabili cittadini, uomini, donne e fanciulli e financo frati e pure li preti, che questi pensavano, così dicevano alcuni maliziosi de lo contado, di non mai trovare la morte davanti alle loro porte. E vi era chi aveva il tremito della morte, e chi soffiandosi il naso sur una pezzòla vedeva l’immagine del teschio che rideva matto e chi sentiva chiamare forte il nome suo da tutte le parti, così che per le misere stanze di quelle case de’ poveri la voce della morte che chiamava era ovunque e infino lungo le redole de’ campi si sentivano a voce alta tutti li nomi del mondo chiamati, che a volte appariva la morte stessa là nel mezzo del taglio e stava ritta con la frullana in spalla, pronta a prendere tutte le anime che poteva. […].

In nell’anno MCCCXL, in nel mese di giugno, morì velenato, pur non sapendo da chi fosse – ma si credette da qualcuna femmina maliziosa – messer Stefano de’ Tintori, ch’era uno di que’ de’ limoni e tra i più belli e fei che mai si videro su questa terra, e quivi dico che egli fu uomo di tutte le bellezze e soavità piene e che niuno poteva essere al pari suo e in fierezza e in denari, soprattutto in denari; agile e fiero e gonfio di baldanza fu sempre nel portamento suo e mai fu visto con su la faccia la ghigna; amava tutti con maggiore bontà e sopportava tutti con grande pazienza quelli che sapeva deboli di spirito, come bambini fluttuanti. Sebbene non fosse di que’ molti che strusciavano le panche o mangiavano le ostie, messer Stefano fu reputato di grande altezza di animo e di cuore buono e quel Dio lo accolga tra i suoi bracci possenti e santi, e che faccia dire a’ preti che fu animo grande assai e che avete voglia voi a pregare, ma di come lui veramente difficile sarebbe averne altro…

[…] Ricordo fo poi come a dì XX del mese di maggio MCCCXLI, prete Michele de’ Chinni, che tutto portò nella tomba, si partì da detta terra con dua compagni, con volontà d’andare in villa di messer Cesare de’ Checchi in Veneri per sbrigare di certi affari segreti […].

La mattina seguente fu udita messa in nella chiesa dei Santi Quirico e Giulitta e di poi fatto pensiero di andare a Lucca, passando dallo Regno, ove per quella strada ci fermammo da messer Mario de’ Biagioni de lo castello di Poppi e da donna Adriana che era de lo Argine Grosso di Fiorenza, la quale donna con squisita virtù e bontà umile fece uno mangiare di quattro taglieri bellissimi, certa focaccia di Fiorenza e buonissimi dolci che furno ben accolti. […]

Nell’anno del Signore MCCCXLI di aprile, maggio e giugno, in nella chiesa in su la via Squarcia Bocconi di Alberghi, dove era dipinta nostra Donna col Figliolo suo a caribicci, in nell’altare de’ Molendi, apparirno di molti miracoli a una giovane gravida di quella terra, certa Cristina de’ Matteucci, la quale, recatasi in nella chiesa per pregare, come faceva ogni dì, essendo ella di molto pia e devota come niuna donna fu mai alla Madonna e al suo unico Figliolo, e con la promessa che mai aveva tirato moccoli e sagrati in vita sua, né mai aveva in mente di bestemmiare alto, tutta intenta a sgranare il rosario, nel mentre che sì devotamente pregava nostra Donna, vide chiaramente la Vergine su quel muro muovere la testa in su e in giù più volte e poi parlare a questa pia e devota Cristina, la quale, da quella brava figliola che ella era, subito si buttò per terra e pregò sì ardentemente la Madonna, chiedendo cosa doveva fare per guarire la terra di Pescia. Nostra Donna rispose che si bisognava fare come Cristina faceva, cioè pregare di molto, fare dura penitenza, mangiare poco e bere ancora meno, non mangiare né carne né pesce, né altri animali nel venerdì, e che bisognava stare a pane e acqua la mattina come se fosse una perpetua quaresima, e stare in casa rinchiusi come in un eterno carcere ovvero sia prigione domestica e famigliare. […]