Mi è capitato di leggere di recente, su uno dei tanti siti che parlano di scuola, a proposito di un’indagine svolta tra i ragazzi delle scuole superiori; per l’84% di loro il rientro dopo la didattica a distanza è stato traumatico, a causa dell’alto numero di verifiche e interrogazioni a cui sono stati sottoposti. “È buffo”, ho pensato. Se si chiede ai docenti come è andato il rientro si otterranno probabilmente risposte speculari. L’84% di loro si lamenterà che non è riuscito a svolgere il programma come aveva in mente di fare, o non è riuscito a avere un numero di verifiche soddisfacente, o più ancora non è stato contento di come i ragazzi hanno partecipato al dialogo educativo, trovandoli distratti o poco motivati.

 

Come spesso accade non c’è un’unica verità, e se c’è si trova tra i due opposti: tra gli studenti che si lamentano spesso in modo eccessivo e i docenti che pretendono di trattare quest’anno scolastico come un anno normale. Mi spiego meglio. Se confronto la scuola di oggi con quella di trent’anni fa (la mia) mi rendo conto che  noi non avevamo i diritti che io e i miei colleghi concediamo oggi ai nostri ragazzi; la programmazione delle verifiche, la possibilità di giustificarsi una volta a quadrimestre quando inizia il giro di interrogazioni o quella di non avere due compiti lo stesso giorno. Per noi era normale affrontare (brontolando) delle settimane in cui magari nella stessa mattinata c’era il compito di matematica e subito dopo quello di storia; oggi non lo è più, e forse è un bene. Se la scuola non deve avere un carattere punitivo, ma cercare di valorizzare i ragazzi e tirar fuori il meglio da loro è anche giusto che si mettano nelle condizioni ottimali per riuscire bene. Un bel voto è un piacere sia per chi lo riceve che per chi lo dà, del resto.

 

Ma a volte ho la sensazione che questo atteggiamento possa trasformarsi in una sorta di boomerang. Non vorrei che passasse l’idea, insomma, che la vita lavorativa o l’università dopo la scuola superiore siano una passeggiata, perché spesso non lo sono. Spesso i compiti da portare a termine si accavallano; spesso si deve far nottata sui libri, o sgobbare fino a tardi per consegnare un lavoro in tempo. Spesso si ha la sensazione di annegare, e se l’ansia ci divora è colpa di chi non ci ha preparato a gestirla come si deve. La scuola deve avere come obiettivo anche quello di insegnare ai ragazzi come organizzare il proprio tempo e il proprio lavoro: ma spesso i ragazzi non sanno o non vogliono farlo. Io dico loro di studiare un po’ per giorno, o di avvantaggiarsi quando hanno un pomeriggio più libero, ma sono certa che quasi nessuno lo faccia. Poi si avvicinano le prove di verifica e c’è da studiare magari una ventina di pagine di una materia che è stata trascurata “perché tanto sono già stato interrogato, chissà quando tocca di nuovo a me”.

 

Parliamoci chiaro; la DaD per molti ragazzi è stata un lungo periodo di vacanza. Una vacanza triste, per carità, vissuta tra la paura di ammalarsi, la preoccupazione per chi magari malato lo era già e la perdita dei punti di riferimento di sempre: scuola, amici, sport, divertimento. Lo studio non è stato l’ancora di salvezza che speravo diventasse per riempire i pomeriggi, ma un’incombenza più noiosa e meno proficua di sempre. Invece di dedicarcisi anima e corpo molti ragazzi l’hanno curato poco e male. Li colpevolizzo? Non più di tanto. Sono, appunto, ragazzi. Ma adesso c’è da tirarsi su le maniche e darci dentro con l’impegno, e sono poco tollerante verso lamentele che trovo in gran parte ingiustificate. Perché quasi sempre sono dirette verso docenti che si trovano a somministrare adesso le loro verifiche perché quelle che hanno fatto fare a distanza sono risultate in larga misura copiate e quindi poco oneste, e vanno rifatte daccapo. Come la mettiamo, dunque? Non sono forse le colpe equamente distribuite?