Nonna odiava questo mese, perché fu proprio in un giorno di novembre che Romolo, l’imbianchino, detto Masaccio, anche maestro della banda del paese, corse saltando poggi e fossi per dirle a testa bassa, coi lucciconi agli occhi, il naso che colava e con un bel cappellaccio rosso fuoco tra le mani, tutte sudate e piene di pruni, che mio nonno Alfredo, classe 1899, primo corno della banda, mentre provavano la marcia dell’Aida su al Circolino, era morto da un colpo, e se ne stava lì per terra, con la sua bella camicia verde e la cravatta di lana rossa, in attesa che don Avio, il pievano, e Fulvio, il becchino, lo portassero via.

 

Visto che era l’ultima prova generale prima del concerto che la banda avrebbe dato quello stesso giorno, vigilia di san Martino, patrono del paese, alle cinque in punto, di fronte al sindaco, fresco di matrimonio con una lontana cugina di nonna, a don Avio – che nell’occasione si sarebbe sbarbato per poi coprire le sue inaspettatamente toniche membra di un soffice manto violaceo in onore dell’ambita nomina a canonico tesoriere – al vescovo, al maresciallo dei carabinieri, al quale era scappata la moglie col macellaio del paese poche settimane prima, ed alla farmacista, la dottoressa Anna, la più bella tra tutte le donne del mondo, oltre poi ad un pubblico pagante di cui don Avio ben conosceva i numerosi vizi e le ben poche virtù, e che rimandare il concerto avrebbe creato non poche difficoltà, anche nonna acconsentì che la banda suonasse quello stesso pomeriggio.

 

«Dove volete che vada il mio Alfredo?», qualcuno che abitava vicino alla piazza, sopra la fontana, giurò di aver sentito nonna dire con un certo tono ironico ad un sudato don Avio, il quale, nonostante fosse già un poco paonazzo in viso ed emozionato, riteneva più cristiano annullare il concerto per procedere ad un solenne funerale, da celebrarsi ai piedi della scultura lignea quattrocentesca raffigurante san Martino che taglia il mantello ad un incredulo povero ginocchioni, scultura alla quale nonno era piuttosto affezionato.

 

Alla fine, don Avio si era rassegnato. Quel pomeriggio, con un visino tutto smunto e rattristato, dello stesso colore della mozzetta che di lì a poco avrebbe indossata al circolino per il tanto atteso concerto, e che i più maligni tra i suoi fedeli dissero stargli un po’ troppo floscia per quelle belle spalle da boscaiolo che Iddio gli aveva fatto, l’amico fraterno di nonno fu visto entrare in casa nostra insieme con un chierichetto coi pantaloni tutti mangiucchiati agli orli dalle tarme, per poi uscirne che era un’ora prima di cena, quando la signorina Franca, la quasi ottantacinquenne perpetua in canonica da una vita, era pronta a togliere dal fuoco la gallina decapitata, che il canonico voleva tiepida con tutte le salse e non a bollore.

 

Alla fine fecero come aveva detto nonna, cioè il funerale si tenne il giorno dopo il concerto, che fu un giorno che uscì fuori un sole che fece lasciare a tutti i paesani di nonno le giubbe rinchiuse negli armadi e fu ricordato, mentre lui se ne stava sdraiato dentro la comoda e bella bara di legno chiaro, con emozionanti parole da don Avio, che per l’occasione si era riletto la sera prima qualche pagina ad effetto delle Confessioni di sant’Agostino, un vecchio santo che ricordo che a nonno piaceva parecchio, soprattutto per quella storia del furto delle pere, di cui nonno ma pure nonna erano ghiottissimi, tanto da averne piantati, mi sembra, un paio di alberi su nel poggio per far fresco ai polli, ai conigli ed alle oche, che nonno e nonna allevavano.

 

Nonna quando ero ragazzetto mi avrà raccontato almeno mille volte il concerto che la banda tenne il giorno in cui morì nonno.

 

Il programma rimase lo stesso, come pure i discorsi che prima il sindaco e poi il vescovo fecero davanti ad un pubblico ancora incredulo, sbigottito e coi lucciconi agli occhi, che erano grossi come sassi, per via della morte di nonno, a cui tutti volevano un gran bene, e prova fu che i suoi paesani e concertisti, così li chiamava nonna, facendo spallucce e l’occhiolino, prima di accordare gli strumenti, si alzarono tutti di scatto e lanciando in aria il berretto rosso che fino ad allora avevano ben calcato in testa, urlarono per poi applaudire un fragoroso “Ciao, Alfredo, a presto!”, che lasciò tutti di ghiaccio, anche don Avio, che fu visto cacciare per poi subito ritirare la mano sinistra sotto la veste paonazza all’altezza della cintura nera e logora e la farmacista Anna, la più bella di tutte quella sera, che nessuno mai aveva visto piangere.

 

Suonarono tutti i brani e financo il vecchio Mozart risuonò tra quei muri scrostati ed umidi con l’aria Non più andrai farfallone amoroso da Le nozze di Figaro, brano che nonna non parve lì per lì apprezzare e capire subito, e per ben tre volte il pubblico del circolino urlò che suonassero l’Intermezzo dalla Cavalleria rusticana del livornese Mascagni, che pure nonna fischiava quando si sentiva giù di morale o era arrabbiata con nonno. Il quale diceva che un suo zio era amico amico di Mascagni, ed io forse ci credo, anche perché, come nonna, e come faccio anche io quando parlo e scrivo, ripeteva due volte la parola “amico” per significare una stretta amicizia.

Lo stesso don Avio, canonico arciprete della medesima pieve in cui furono battezzati prima nonno e poi nonna, guardando la scultura lignea quattrocentesca raffigurante il santo patrono, tutto bardato di viola e sudato che nemmeno sua mamma lo avrebbe riconosciuto, il giorno del funerale di nonno disse che anche lui aveva perso un amico amico.

 

Ricordo ancora le parole che mi disse nonna quando spense per sempre i suoi meravigliosi occhi celesti venati di verde, fissando i miei, marroni e leggermente strabici:

«Fabrizio, non fare scappare le galline come l’altra sera. Ora però me ne vado. Ti saluto nonno».