La politica tutta, nelle ultime settimane, ha offerto uno spettacolo davvero poco edificante. Questa è la premessa che mi sento di fare nel tentare una riflessione complessiva su quel che è successo in merito all’elezione del tredicesimo Presidente della Repubblica. Tra giochi di palazzo, strategie quasi tutte poco riuscite, colpi inferti alle spalle ai nemici ma anche ai presunti alleati, gli italiani hanno assistito a un Parlamento tra l’abulia e l’isterismo, che non è riuscito a partorire un nome che mettesse tutti d’accordo, e accantonasse rivalità e tornaconti personali.

Taccio sul fatto che quel nome dovesse per forza essere femminile: come se il genere, da solo, giustificasse una scelta a mo’ di gentile omaggio alle signore in sala, di cadeau, e non ci fossero, invece, tante donne in Italia che quel ruolo se lo guadagnano semplicemente per meriti. Ma il leit motiv del “presidente donna” ha tenuto banco per giorni, e forse è servito a ingarbugliare ancora di più una matassa che, alla fine della settimana scorsa, si è sbrogliata soltanto a forza di dichiarazioni-bomba.

Che la corsa al Quirinale partisse male secondo me era evidente già da alcune settimane, dalla famosa conferenza stampa di fine anno in cui Mario Draghi ha detto, letteralmente, di essere “un nonno al servizio delle istituzioni”, e ha fatto intendere di essere disponibile a lasciare il ruolo di premier per quello di Presidente della Repubblica, col sostegno della sua maggioranza (sostegno, si è visto, largamente sopravvalutato). Siamo stati in molti a pensare che dovesse restare al suo posto, a traghettare il paese fuori dalla pandemia e a programmare le mosse dei prossimi mesi, in particolare per quel che riguarda la gestione dei fondi del PNNR.

Io non dimentico che è stato Giuseppe Conte, con una trattativa durissima, ad assicurarsi quei fondi a Bruxelles, e non dimentico nemmeno che il governo Conte bis è stato fatto cadere mentre le vittime del Covid si contavano a centinaia ogni giorno e il paese pareva sull’orlo del collasso sanitario. Non lo dimentico, ma quella è un’altra storia; nel momento in cui, a febbraio 2021, si è insediato Draghi, sembrava, per la stampa quasi al completo, che avessimo appena sventato una catastrofe planetaria, e che senza Draghi al timone saremmo andati a fondo. Era una visione miracolistica, manichea, che ci dice molto di più sullo stato di salute del giornalismo italiano che sulle virtù del politico.

Un anno dopo, ben lungi dall’aver risolto i problemi del paese, abbiamo sfiorato un trasloco ben più impegnativo di quello a cui Mattarella ha dovuto rinunciare rimanendo al Colle invece di andarsene ai Parioli. Draghi al suo posto avrebbe significato quasi certamente il tracollo del governo, e sebbene la fase acuta della pandemia sembri alle spalle restano diverse questioni da risolvere, dal caro bollette alla campagna di vaccinazione, da una gestione a dir poco disastrosa della scuola alle riforme, mancate, della sanità territoriale e via dicendo. Quindi sono ben felice che Draghi sia rimasto dov’era, invece di mettere in atto una manovra alla Schettino.

Ma davvero Mattarella, che peraltro già aveva fatto sapere di non voler fare un altro settennato, era l’unica scelta possibile? Davvero non c’erano altri candidati papabili?
Draghi è stato il primo nome ad essere bruciato: e si è bruciato per autocombustione, facendo tutto da solo. Poi ci si è messo Berlusconi: ma forse alla sua candidatura non hanno creduto più di tanto né lui né i suoi alleati del centrodestra, che un po’ come si fa con i grandi attori ormai anziani alla cerimonia degli Oscar gli hanno dato la statuetta alla carriera ma senza farlo partecipare alla competizione.

Molti italiani, del resto, hanno espresso chiaramente il loro pensiero: circa 380.000 persone hanno firmato una petizione intitolata “Berlusconi al Quirinale? No grazie”. Un segnale sufficientemente chiaro che non fosse il caso, in aggiunta agli evidenti problemi di salute che lo affliggono ormai da tempo, impedendogli di partecipare ai suoi processi. Poi è arrivato Salvini, che con una media di un candidato al giorno ne ha fatti fuori sette, nell’ordine: Pera, Moratti, Nordio, Frattini, Massolo e Cassese per concludere con la Casellati, che non l’ha presa benissimo e ha mandato, compulsivamente, messaggi col cellulare per tutta la durata dello spoglio, per sapere chi fossero i franchi tiratori. Una scena avvilente.

Poi ci si sono messi Conte e Di Maio, che invece di affilare le armi in segreto e lavare i panni sporchi in casa, si sono accoltellati a favore di telecamere, ottenendo due risultati: quello di spaccare ancora di più il Movimento Cinque Stelle tra “dimaiani” e “contiani” e quello di bruciare un candidato, anzi, una candidata, che stava salendo nelle quotazioni per essere il primo Presidente donna nella storia della Repubblica. Nel frattempo il Pd di Letta, ancora ostaggio dell’ala renziana, si è finto morto come davanti all’orso (vorrei che la battuta fosse mia, ma purtroppo non lo è: la rubo a un amico, sperando che mi perdoni), dopo aver depositato a dicembre la proposta di un ddl che vieti il secondo mandato presidenziale, in contrasto con le norme costituzionali. E poi non ha pronunciato alcun nome di prestigio e non ha sostenuto la candidatura della Belloni; quando ha capito che il Movimento rischia l’auto-annientamento ha pensato che fosse una buona idea essere in prima fila a calpestarne il cadavere.

Insomma, al di là delle preferenze personali, che non ho mai nascosto (per me, molto semplicemente, Conte non doveva cadere, ma restare al suo posto fino a fine legislatura, e le elezioni del prossimo anno certificheranno con precisione chirurgica le responsabilità), il panorama è tutto, nel complesso, desolante, e non saprei proprio chi lasciare sulla torre se mi chiedessero chi buttare giù. La narrazione riguardo allo stesso Mattarella, che ora viene dipinto come il salvatore della patria che si sacrifica per il bene di tutti, non mi convince più di tanto, per quanto lo ritenga un Presidente infinitamente migliore di quanto non sia stato Napolitano.

Resta da vedere se il governo terrà o inizierà a perdere pezzi, come qualche segnale (il malcontento di Giorgetti) suggerisce.
Nel frattempo, la più furba di tutti è stata la Meloni, e lo dico, non avendola mai votata e non avendo nessuna intenzione di farlo mai, con grande malumore. Ma i meriti e la coerenza vanno riconosciuti, in politica. E purtroppo, di coerenza, questa settimana se ne è vista ben poca.