Il dovere. Quale dovere? Ci sono dei doveri? In definitiva, cos’è il dovere? Sembra che il dovere, come sostantivo del verbo, sia nato nella prima metà del secolo XIV. Sarebbe l’obbligo di agire in conformità di una legge imposta dal­l’esterno, dettata dalla propria coscienza. In pratica, ciò che è comunemente considerato come conveniente, co­me giusto. Fino alla meta del secolo scorso, uno scrittore, ritornando alla sua infanzia ed adolescenza, indicava il verbo dovere come muro maestro dell’insegnamento nel l’affrontare la vita.

 

Impartito con l’esempio, che vale molto di più delle parole, era anche scandito da imperativi categorici:

devi essere buono;
devi sopportare la fatica;
devi andare d’accordo con tua sorella (fratello);
devi ubbidire: ai genitori, ai nonni, al maestro, ai professori;
devi rispettare i vecchi e chi è più debole di te;
devi risparmiare, perché è la regola che mantiene il “convento”;
devi imparare a fare da solo; non chiedere aiuto per faccende da niente: arrangiati!

Accanto alla parola dovere, ce n’era un’altra: me­rito. Meritare lo studio, i libri, la scuola; come il futuro, 1’avvenire. Così s’imparava, da ragazzi, una verità: otterrai soltanto quello che sarai capace di meritare.

L’emancipazione sociale, la professione, la carriera, il benessere dovevano essere guadagnati faticando perché nessuno ti avrebbe regalato niente. E per dare più valore a questi concetti, l’autore ricordava che non gli mancavano i nonni né i genitori: lui, li salutava ogni sera prima di addormentarsi e, sorridendo, diceva “Grazie, babbo”.

Difficile riconoscere la nostra società attraverso questi imperativi, una società fiacca pur se frenetica; indolente, pigra, svogliata, indifferente, apatica: un filosofo moderno la definisce “debole”, e forse ce ne sono le ragioni. Ovviamente, questa è solo un’analisi personale, superficiale e limitata alle mie conoscenze ed esperienze. Non voglio fare di tutta l’erba un fascio, ma quando si parla di merito e di dovere, un fondo di verità nei concetti espressi c’è tutto. Dovere – merito: i capisaldi d’allora sono riproponibili da noi, oggi? Il dovere di studiare corrisponde ad un sacrificio, non ci si può girare intorno. E, seppur forzando il pa­ragone, può essere accostato al lavoro agricolo. Questo, per ottenere un buon raccolto, deve arare, e lo deve fare in profondità, altrimenti non otterrà i risultati sperati.

Così è anche lo studio: il cervello deve essere “arato”, e quanto più lo è in profondità, così tante saranno ampie le conoscenze. Sicuramente faticoso, duro, pe­sante, ma la gratificazione ottenuta aprirà orizzonti sconosciuti ai più, a coloro che non vorranno sacrificar si, e ne beneficerà l’autostima, le proprie abilità, l’intera società. Perché l’aratura non s’identifica solo nel raggiungere alte vette intellettuali, ma anche nel gestire, con sicurezza ed ingegno, quelli che una volta erano chiamati mestieri, le arti “minori”.

Per apprenderle, non tanti decenni fa, i genitori pagavano l’artigiano affinché passasse le sue conoscenze a ragazzi della prima adole­scenza: il tirocinio era necessario, ed obbligatorio, per raggiungere quelle mete. Quindi, se l’aratura sarà superficiale, tale rimarrà la conoscenza, in qualsiasi campo; mentre prima la scuola finiva alla 3°-5° Elementare, ed il vocabolario e la grammatica ne risentivano, oggi, con l’obbligo fi­no al 18° anno – e poi l’Università – i “nostri” dovrebbero avere una certa padronanza con quelli.

Invece, si assiste, si legge, si ascolta una deprecabile povertà di vocaboli, di nomi, ed una costruzione della frase che ha come perno, tra i giovani, il presente indicativo. Nel parlare quotidiano, si nota ormai l’assenza, la scomparsa -quasi- dei modi condizionale e congiuntivo, che indicano la possibilità, la volontà, l’irrealtà del pensiero. Chi ha l’orecchio allenato noterà che il modo più usato, come detto, è l’indicativo presente; dispersi, chissà dove -nel linguaggio- il futuro, il domani, le ipotesi: se io potessi, vorrei, potrei, se ce la facessi.

Oggi, tutto presente: posso, faccio, voglio; e questo crea un grosso problema, non solo, purtroppo, verbale. Se viene mantenuto il parlare infantile, che a vol­te scade nel capriccio, un adulto che non sa usare né condizionale né congiuntivo, andrà incontro ad un equivoco pericoloso.

A parte una forma minima di educazione, c’è la tendenza, soprattutto giovanile e non solo, ad accompagna­re il verbo al presente con il punto esclamativo, e con il tu; ecco, così, come parlano gran parte di quelli: io posso! Io faccio! Io voglio! E’ eccessiva sicurezza? O, invece, un progressivo imbarbarimento non solo della lingua, ma anche del ca­rattere della nostra società? Parlare del dovere? Ricordare il rispetto? Insegnare l’educazione?

Credo che, a distanza di pochi decenni, si stiano raccogliendo i frutti di quanto seminato nel ’68. Il 6 politico, gli esami di gruppo, diplomi e laure come carta straccia. Non tutto da buttare, certamente; ma, altrettanto sicuramente, da rivedere, correggere, rivalutare: da arare, perché non c’è gioia maggiore che raggiungere un traguardo, “quello”, con le proprie forze, possibilità; attraverso sacrifici, impegno, sofferenza, sudore.

Visto il mondo attuale, ci sono pochi svolazzi ro­mantici da fare. Non si potrà cambiare il futuro con un congiuntivo, né col dovere e, finora, nemmeno col merito. Ci dobbiamo però tutti chiedere che cosa abbiamo fatto, facciamo e siamo disposti a fare per tentare di arginare questa vertiginosa caduta in basso della nostra cul­tura e, di conseguenza, delle aspettative per il futuro. Perché sarà vero, forse, che i nostri cervelli mi­gliori se ne vanno all’estero, ma è mai possibile che, tra quelli rimasti, non ce ne sia qualcuno che non ten­ga alta la nostra dignità, almeno quella?

Oppure: vogliamo continuare a piangerci addosso, ed incolpare, in modo bambinesco, il “governo ladro” di turno?  Se non si ara, non si può seminare. Se non si può seminare, non si può raccogliere; qualcuno ci dovrà di­re, prima possibile, di ricominciare da dove abbiamo lasciato noi stessi e la nostra Storia. “E se l’avvenire dell’albero ed il suo progresso verso l’alto sono sopra la terra, le radici sono sotto la terra. E ciò significa che l’avvenire è alimentato dal passato. Guai a coloro che non coltivano il ricordo del passato: sono gente che seminano non sulla terra ma sul cemento”.
Franco Corsetti