Ricorrevano il 14 marzo i cento giorni alla maturità, ovvero all’Esame di Stato (oggi il termine “maturità” nei documenti ufficiali non si usa più, e ci sarebbe da riflettere su questo!) edizione 2022: una data importante, che ai miei tempi si celebrava con una bella forca collettiva al mare (per scrivere sulla sabbia il voto che ci si augurava di prendere) o a Pisa, per toccare la lucertolina sulla porta del Battistero o girare  intorno alla Torre saltellando su una gamba sola: riti apotropaici a cui mancava sempre il più crumiro della classe, quello che decideva di restare a casa o peggio presentarsi a scuola tra lo sconcerto dei professori.

Per due anni il Covid ha tolto ai maturandi il piacere e la gioia di ritrovarsi tutti insieme per un’occasione così importante: quest’anno, finalmente, si sono rivisti i vagoni pieni e le auto cariche di studenti festanti che se ne andavano in giro bigiando le lezioni. È tornata la normalità, forse. Non fosse per una guerra orribile che si combatte a duemila chilometri da noi e ci costringe a fare i conti con un altro dramma, forse ancora più grande.

C’è normalità anche nell’impostazione dell’esame stesso: e io che per altre vicende non ho lesinato critiche al ministro Bianchi stavolta appoggio le sue scelte, e il non aver fatto marcia indietro di fronte alle proteste e alle polemiche degli studenti: se per ragioni di consenso avesse eliminato le prove scritte, quest’anno in cui più o meno la scuola ce l’ha fatta a restare in presenza per gran parte dell’anno, l’esame mi sarebbe sembrato la farsa che non deve essere. Si potrebbe obiettare che i ragazzi vengono da due anni difficili; eppure la scuola gli strumenti per affrontare l’esame li ha sempre forniti, anche se li ha forniti da dietro uno schermo: adesso è il momento di dimostrare che il lavoro fatto non è stato inutile.

Sono tornate due prove scritte, dunque: una di italiano e una relativa alle materie di indirizzo della scuola frequentata. Le tracce di quest’ultima saranno formulate dalle commissioni dei docenti interni e saranno uguali per tutti gli studenti dello stesso indirizzo di studio all’interno dello stesso istituto. I docenti che i ragazzi conoscono già, quindi, li valuteranno all’esame, come nei due anni scorsi; questo per evitare spostamenti di personale che potrebbero far aumentare i contagi da Covid. Solo il Presidente verrà da fuori, per coordinare lo svolgimento delle prove e mediare tra le varie voci.

La prima prova comprenderà sette tracce da poter scegliere: due analisi di testi letterari (solitamente uno in prosa e uno in versi), tre testi argomentativi di cui uno di Storia, e un tema di carattere generale. Benché quest’ultimo sia tradizionalmente la scelta preferita dai maturandi che hanno poca dimestichezza col programma di Letteratura o con i tecnicismi delle analisi del testo, io dico sempre ai miei studenti che secondo me è il più insidioso; proprio perché “di ordine generale” rischia di essere banale e generico, specie se non si hanno le idee chiare o conoscenze approfondite sull’argomento che propone. Invece le analisi del testo, proprio perché il testo lo si ha a disposizione e ci si può ragionare sopra, si rivelano quasi sempre ingiustamente bistrattate e messe da parte, con gran dispiacere dei docenti di Italiano che le correggerebbero volentieri.

La fase conclusiva dell’Esame di Stato verterà su un colloquio orale, dedicato all’analisi di materiali scelti dalla commissione (testi, documenti, problemi, progetti ecc., da organizzare in modo multidisciplinare); ci sarà poi la verifica delle competenze di Educazione Civica e infine la presentazione delle esperienze di PCTO, ovvero l’ex alternanza scuola-lavoro, le 150 ore all’esterno, in aziende, laboratori o altro, che i ragazzi hanno svolto nel triennio.

Cento giorni sembrano molti: ma volano. Soprattutto perché chiudono un ciclo importante, quella scuola superiore che in certi momenti i ragazzi avranno sicuramente odiato, ma che nel bene e nel male li segnerà per il resto della loro vita. Si ricorderanno dei loro insegnanti per sempre: perfino di quelli più severi, a cui ripenseranno con affetto, purché siano stati sempre leali e onesti. Il mio augurio è che queste ultime settimane di scuola siano vissute intensamente: nelle amicizie, nella partecipazione, e anche nello studio. Perché “studio” è una parola che ha un suono bellissimo, e anticamente voleva dire “passione”, “interesse”: una passione che – lo so bene, dopo ventidue anni passati nella scuola – purtroppo i ragazzi scoprono di rimpiangere troppo tardi, quando la vita li porta ad occuparsi di tutt’altro.

Stefania Berti