Per tutti noi che l’abbiamo conosciuta ed ammirata era, semplicemente, “la Carla”.

Non serviva neppure mettere dopo il nome il cognome o da ragazza o da sposata. “La Carla”, a Pescia e nei dintorni, era, per tutti, la Carla Papini.

Nemmeno fosse stata la première dame di Francia, come le dicevo io ogni volta che la incontravo a giro per Pescia. Chissà cosa avrà pensato quando io le facevo la stessa battuta ogni volta che la vedevo. Io ho un sospetto, ma non lo scrivo qui.

Lei, ovviamente, ci rideva su. E quegli occhi bellissimi che stavano lì in agguato dietro gli occhiali parevano esplodere di gioia e di bellezza, ed era proprio lì che capivi di trovarti di fronte ad una donna meravigliosamente straordinaria. E subito quegli occhi  diventavano come acqua, anzi, erano acqua, e te non potevi fare altro che stare lì a guardarla e ad ascoltarla. Perché la Carla prima ti metteva a tuo agio e poi ti spruzzava addosso mille parole con pochi aggettivi ed ancor meno avverbi.

Quasi come quando, dai piani alti di un autorevole quotidiano di Toronto, qualcuno dette qualche dritta ad un giovane ma già terribilmente geniale Ernest Hemingway su come scrivere.

La Carla era ed è tuttora – perché  le belle anime vivono per sempre e per sempre stanno al nostro fianco fino alla fine dei tempi – simile al vecchio Hemingway: come lui, la Carla arrivava al nocciolo della questione ancor prima che tu capissi di avere a che fare con una donna che profumava di intelligenza e di dolcezza. Io ho sempre avuto questa impressione.

Ho ammirato la Carla, fin da quando me la presentarono, anni fa, ad una mostra al Palagio, ed io che credevo di aver stretto la mano a Claudia Cardinale.

Poi, in seguito, quando fu eletta per guidare gli Amici di Pescia, le dissi che era perfetta per quel non facile ruolo. Ovvio che non aveva bisogno dei miei consigli. Io di solito non do mai buoni consigli. Lei era perfetta per stare tra gli Amici. Non conto le iniziative culturali organizzate dalla Carla.

Tutti noi abbiamo di sicuro qualche whatsapp o email della Carla, dove invita a scrivere qualche articolo per Nebulae.

In effetti, ogni volta che mi incontrava a Pescia io la vedevo che non ce la faceva proprio a non chiedermi di scriverle qualcosa per Nebulae; però qualcosa di serio, si premurava di aggiungere subito, intendendo non quei racconti scemi che inviavo ed invio tuttora col petto gonfio a il Cittadino, mensile al quale la Carla era tremendamente affezionata, tanto da tenerci una rubrica assai letta, più della mia. Perché la Carla era così. Non voleva che perdessi il mio tempo a scrivere scemenze. Ma la Carla non sapeva che a volte si può vivere di scemenze. Io ne so qualcosa.

Quel caschetto candido come neve da farci tante palle e tirarle ai vetri delle finestre ad un certo punto diventò un incubo. “Mi ha chiamato la Carla”; “La Carla mi ha scritto una email di tre pagine”; “Stasera non vado al cinema, mi deve chiamare la Carla dopo cena”. Però poi la Carla ti chiamava sul cellulare e lì tirava fuori l’anima della mamma. A me trovava sempre in hotel: ed era gentile che nemmeno le mie colleghe. Mi chiamava sempre per cognome, quasi mai per nome.

Io però l’ho sempre orgogliosamente chiamata Carla e chissà se da lassù vede che mentre ho finito di scrivere queste poche righe sparse in sua memoria, ho quasi tutti i tasti del computer bagnati dalle lacrime che scendono giù che paiono pagate (e qui la Carla avrebbe scosso la testa e fatto un bel sorriso, lo so per certo). Ciao, mia amica Carla.

 

P.S. Sapevo della sua malattia da lei stessa. Era un sabato. Faceva caldo. Era giorno di mercato. Non ricordo però il mese. Mi fermò lei, chiamandomi, al solito, per cognome, davanti il negozio di Paolo, il fotografo. Ancor prima che io potessi rispondere al suo saluto mi venne addosso e mi abbracciò forte come nemmeno avevano fatto le poche fidanzate che ho avuto.

Capii subito che voleva e doveva dirmi qualcosa. Quello che mi disse lo tengo per me.

Nemmeno posso dirti che ci rivedremo, mia amica Carla. Io, di sicuro, andrò all’inferno.