Tutto è cominciato diversi anni fa; anzi, tanti, quando ancora si viaggiava col simpaticissimo tram, il pullman si chiamava corriera e il treno era una chance quasi unica.

Si capisce che parlo di un’era ormai quasi scomparsa, quando il legame per il paese era ancora forte, così come per una cittadina, e la vita scorreva lentamente tanto che muoversi a piedi era normale e la bicicletta un mezzo non alla portata di tutti. Un mondo antico, fatto di aneddoti, di piccoli avvenimenti, di quando l’ultimo viaggio su questa terra si concludeva agli “alberini”, come lo chiamava Guglielmo detto “Pappio”, e lì si chiudeva la cassa prima della sepoltura. C’erano tanti bimbi, in paese, diviso, come gli altri, in modeste località: Mori, Fucina, Canterobù, Borghetti, Botteghina, Castello, Ponte all’Abate, che tenevano alto un certo “agonismo” e che si concludeva giocando al pallone, di plastica leggera e andava spesso lontano dal voluto.

Prima, davanti alla chiesa, per i più piccoli, poi dietro le scuole elementari, per i più grandi, con squadre a volte composte da più di 11 giocatori, i contrasti erano continui e c’era tanto tifo da parte degli spettatori lungo la strada che portava a S. Martino. E’ qui che è partito il mio affetto per quello sport, tanto che la domenica pomeriggio me ne andavo a piedi al bellissimo “stadio dei Fiori” per fare il raccattapalle. Nei dieci minuti dopo la fine della partita dei rossoneri, il custode Pellegro ci faceva giocare nella porta lontana dagli spogliatoi, mentre lui staccava materialmente l’altra. Era una sfida, quella, con squadre di 5-6 giocatori e, di loro, ricordo con tanto affetto Rossano, il “Ganzino”, che ebbe, per quei tempi, un buon passato agonistico, e anche un po’ movimentato.

L’evento maggiore, però, era dato dal torneo dei bar, al quale partecipavano anche le frazioni, e dove gli incitamenti dalla tribuna, stipatissima, erano infiocchettati di soprannomi, e spesso il livello tecnico scendeva fino alla risata generale. L’alternativa domenicale alla partita era la “merenda”. Qui da noi, Collodi, le domeniche d’estate, dopo pranzo, tanti ragazzetti e ragazzette si radunavano accanto alla ex chiesa di S. Martino, portando con sé due fatte di pane con dentro una fettona di mortadella (raramente prosciutto), una bottiglia di aranciata, o gassosa, o quell’acqua frizzante grazie alle bustine di idrolitina. C’erano campi di grano quasi dappertutto, con tanti papaveri dentro. Il sole e il caldo la facevano da padroni, e quasi tutti con i sandali (c’erano anche gli zoccoli, in giro), ci mettevamo in marcia verso il Tondo di Chiari, lungo l’oggi pomposamente chiamata via della Fiaba. La mèta era uno spiazzetto pianeggiante e verde, in prossimità dell’arrivo in Valchiusa, dove consumavamo la frugale merenda.

Quanti schiamazzi, urla, canzoni, risate durante quel breve tragitto; c’era felicità pura, un entusiasmo incontrollabile, corse e salti dai cigli per dei momenti di pura libertà, senza controlli e senza freni, anche se nessuno andava mai sopra le righe. C’era, allora, una profonda educazione, che partiva da casa, poi la scuola elementare, un po’ di chiesa e il timore per gli adulti, che io vedevo altissimi e quindi da rispettare, sempre. Capitava la “bischerata” (era l’età giusta), e i genitori venivano “informati della marachella. In casa, la punizione, con tanto di sgridata e lo spettro della cintola. In realtà, ricordando ieri, l’altro, la vita del paese aveva sempre l’estate come una rappresentazione teatrale dove noi, piccole comparse, ci muovevamo passando dal “Tondo” davanti al Giardino alle incursioni sulla Pescia, dove i più piccoli, nascondendo le mutandine, sguazzavamo, quando potevamo, nella “Serra” una specie di piccola piscina, regno incontrastato dei più grandi che, a volte, “attombavano” i più piccoli, e quanti vermetti rossi s’ingoiovano!

Il torrente, o fiumicciattolo, era anche “riserva” di pesca, in pratica, capitava spesso di pescare per portare a casa un diversivo ai pasti ancora sobri. Quindi, ranocchi e pescatelli, tutti catturati con le mani e, eccezionalmente, con un retino per farfalle. Trote e anguille erano preda dei più esperti, merce rara per noi che cominciavamo a muoverci sui sassi scoperti sempre più velocemente. In più, la “covina”. L’acqua del torrente, nel suo scorrere e levigare aveva formato, in un blocco enorme di roccia, un incredibile surrogato di una vasca! Ricordo che il sabato, di solito, diversi operai che finivano il turno settimanale, con i ricambi, un asciugamano e sapone, facevano lì il loro bagno. Nelle nostre case, ancora non si conosceva la doccia, e per i “bisogni”, ci ritiravamo in una stanzetta semibuia, e poco fragrante come odori, che si chiamava “comodo”, forse per scherzo.

Quei tempi, ormai ricordati dai vecchi come “bei”, avevano inoltre la caratteristica presenza di personaggi particolari tanto che, a volte, il nome proprio veniva dimenticato: se cercavi qualcuno con questo, era un guaio. Poi, però, interveniva il “saccente” del borgo, e traduceva il soprannome col nome giusto, ma che fatica! Diversi, come dicevo, i personaggi, patrimonio comune, allora, soprattutto dei paesi e dei quartieri. Oggi, la memoria storica è rimasta quella di Franceschino, il barbiere della vallata che, nonostante l’età, conserva una mente ancora lucida. Si sa: i negozi di parrucchiere e parrucchiera (ieri, barbiere e pettinatrice), sono la fucina delle chiacchere e dei pettegolezzi, e il passaparola con più lentezza, arrivava in tutte le case. Così, c’era Renzo “della Fella”, dal nome della sorella Raffaella, che coniò questo adagio: “Lavorare, lavorano le macchine; i quattrini li fanno le lucciole, e i consigli li dà la Fella!”.

Personaggi originali sì, come tutti, ma di una gradevole presa in giro, e di un humor non tanto britannico ma quello “de no artri”. Il fabbro paesano. Rispondendo chi gli aveva chiesto come mai non frequentasse le funzioni della chiesa, lui così rispose: “Ha mai visto leoni in Chiesa?”. Una domanda che lasciò di stucco il prelato, che balbettò “No, mai! Ma che c’entra?”. E il nostro: “C’entra, c’entra. Finchè non entreranno i leoni, un entrerà neanche l’Orsi (il cognome del fabbro)!”. E poi, una sfilza di nomignoli: lo Stregone, il Mattarano, Caratello, il Lupo; e i miei coetanei: Bufalo, Bretella, Animelle, Mastrilli, Ottone, Canino… Non era un personaggio, ma il Bargiacchi svolgeva un lavoro quasi come fosse un mestiere: era lo spazzino di Collodi. Oggi siamo sommersi da un’ipocrisia che maschera un vuoto di sentimenti e di idee da far paura. Come se certe parole e certi passati dovessero essere piegati al loro potere per dimostarsi anime pure e candide.

Bargiacchi era un spazzino; con un triciclo, con su un bidone, una granata di scopa e una pattumiera di latta girava per la strada principale, via delle Cartiere, e nei suoi vicoli, anche su richiesta. Mi chiedo: era offensivo chiamarlo spazzino? Nessuno lo citava pensando di offenderlo; faceva un lavoro non nobile ma con scrupolo se non con passione. Ci credereste? Collodi, allor, con lui, era ben più pulita di oggi, nel duemila. Cos’è cambiato con gli operatori ecologici? La globalizzazione e, con lei, la nostra mancanza di rispetto per l’ambiente e per chi lo dovrebbe tenere dignitosamente pulito. Ma perché, e per chi, scrivo questi lontanissimi ricordi? Un piccolo paese che ha avuto natali lontanissimi; una Villa e un Giardino fuori luogo; un Pinocchio, che mi chiedo, a volte, se sia stato un bene o meno. Prima, una filanda, qualche cartiera. Poi, più alimentari, un macellaio, un fabbro, un fruttivendolo, dei bar; un elettricista ed un fotografo; un panaio e qualche muratore, e un teatrino. La vita era modesta, con pochi grilli nella testa e, d’estate, tante cicale il cui frinire, insieme al caldo, faceva girare un po’ la testa. Insomma, non mancava nulla: Collodi era autosufficiente. 

Eravamo amici, anche se le diverse zone un po’ si sfidavano l’una contro le altre, ma erano scintille inoffensive. Un po’ più pesante la rivalità con Villa Basilica, tanto che qualche volta volavano anche i sassi. Anche mio padre in questa contesa, e il suo inserimento nel paese non fu facile, anzi. Lui, comunque, rimase villese fino in fondo, conservandone anche il dialetto, perdico!. Avevamo tutto quello che ci permetteva di vivere, tranquillamente, anche se l’albeggiante progresso bussava alla porta. Un parroco, la farmacia all’angolo di Ponte all’Abate, la caserma dei Carabinieri; di notte, le Guardie Giurate che passavano in bicicletta e lasciavano, nell’interstizio della porta d’ingresso il segno del loro passaggio: un bigliettino bianco, testimone di aver controllato. E il rapporto con Pescia? Ai margini, ieri come oggi.

Ricordo tutto questo con tanta nostalgia, con l’affetto che si prova verso il tramonto della vita, con un po’ di commozione per quei tempi ormai lontani, ma che ognuno di noi ha conservato in qualche parte di sé, e si rammarica di non essere stato capace di passarlo alle nuove generazioni. Ormai, l’anima del paesello è migrata chissà dove; basta dare uno sguardo tutto intorno e si vedono i risultati che il benessere ha imposto ai paesani. Allora, Collodi era circondata di campi ben tenuti; di cigli fatti a mano così come le case, con i sassi della Pescia, minore. Tutto era più ordinato, più semplice, più genuino. Ancora si continuava a costruire invece di restaurare le vecchie, cadenti abitazioni, un tempo cuori delle famiglie. Oggi, scomparse quelle, sono scomparse anche le famiglie, quelle d’antan che si radunavano davanti al focolare, e d’inverno si riunivano con gli amici, i vicini, nella cucina per giocare a tombola con i chicchi di granturco: 22, le anime gemelle; 77, le gambe delle donne, e così via. Un rito, quasi, che legava le persone in modo umano e profondo, e che trasmettevano il passato rinnovandone la memoria. 

Oggi, non più focolari bensì la TV 24 ore su 24, e il “tablet” (si dice così?), che io chiamo “tavoletta”: con questo ormai non si scrive più. Non più lettere né biglietti d’auguri, tanto che c’è, addirittura la penna dei francobolli. Siamo, sono connessi vita natural durante, e chissà cosa ancora inventeranno. Ho l’amara sensazione che tutto questo faccia parte di uno “strano” progetto: un Grande Fratello che penserà per tutti noi. Non più case col camino; non più famiglie numerose; sempre meno terra e più cemento. E quel ragazzo della via Gluck, dove sarà finito?

E’ vero. Sognavo un paesino piccino picciò, come quella brevissima poesia “Rio Bò” che, con grande candore, l’autore ha fermato in pochissimi versi un  universo quasi invisibile, ma che io porto dentro di me, da sempre.

Franco Corsetti