Ormai, la fanfara natalizia è inarrestabile. “Passata la tempesta odo angeli far festa…”. Due anni ai “domiciliari”, come li definisco io, ci hanno un po’ cambiato, e la stritolante macchina del consumismo si sta impegnando nel cercare di riprendere il suo abituale, martellante ritmo. Ho perso il conto di quante festività si sono aggiunte alle poche che avevo da ragazzo. Poche, ma sentite, e per questo era necessaria una lunga attesa. Ho letto recentemente, ed in  modo distratto, una critica abbastanza condivisibile, e presaga di un futuro piuttosto buio a proposito dei prossimi mondiali del calcio che, stranamente, ha sconvolto abitudini e campionati nazionali. 

Però, chi ha lavorato per questo evento planetario, ha dichiarato che era necessario esportare il carrozzone calcistico in luoghi ove pochi lo conoscevano per implementare, progettare e favorire la crescita sociale e sportiva in territori ritenuti marginali da noi, portatori sani di diritti e doveri aedi di una civiltà millenaria che ha trovato in una sfera l’elemento decisivo che legherà nord sud est ovest: prosit!

Ecco, così, che il tedoforo per l’apertura di questa nuova, eccitante epoca invece ha con la fiamma olimpica corre con un pallone ai suoi piedi. Insomma, l’ho presa un po’ larga, ma l’ossessiva ricerca di festeggiare quasi giornalmente un evento “speciale” toglie calore e poesia alle solennità dei secoli scorsi. Infatti, oggi è un tripudio di festeggiamenti tanto che la domenica non è più sufficiente! Oggi si ricorda il compleanno di mamma e di babbo, di nonno e della nonna, dei figli e dei  nipoti; poi, gli zii, i cugini, l’uomo e la donna, il patrono del paese (Pescia ne ha quattro), gli anniversari. 

Inoltre, le sagre, le fiere, i mercati, i pali, le varie promozioni e, di certo, me ne dimentico qualcuno. Una indigestione di feste che di sacro hanno ben poco, a dimostrazione che il profano ha vinto nettamente. In tutto questo caos mi sono un po’ perso. Accetto il compleanno per contentare i miei ma, forse, io sono fuori gara, visto questo andazzo. Di certo, mi porto dentro la mia infanzia, la giovinezza, la sobrietà di quei tempi quando mangiare i tortellini era un evento eccezionale tanto che significava felicità pura, e un giorno speciale.

Oggi, siamo diventati grandi, abbiamo i robot che ci tolgono tanti impegni, lasciandoci  un sacco di tempo libero. Così, un dilagare di TV e “tavolette” che ci tengono “connessi” con il mondo, e ci ricordano che è quasi obbligatorio festeggiare l’onomastico del cugino dello zio della nonna paterna vivente in Alabama, olè! Invece, mi piace molto il numero ristretto perché sono convinto che l’apparenza è una pianta sterile; un giorno, per i connessi, ha una durata limitata, e la partecipazione ad un avvenimento qualcosa di obbligato, da dover fare, pena l’esclusione dal gruppo.

Dunque, io sono rimasto al secolo scorso, quando certi giorni erano peculiari perché venivano ricordati in pochissime occasioni, e la parte emotiva cresceva via via che ci avvicinavamo a quella data fatidica. Poi, si cresceva, e che emozioni quando si faceva “la parte in casa”. Fidanzarsi era un fatto importante, il primo scalino da salire per un futuro insieme. C’era una certa ufficialità, una dichiarazione seria, un impegno forte. Seguiva il matrimonio, e la rottura di quello suscitava sorpresa e quasi scandalo. Così funzionava, allora. Oggi tutto è molto più semplice. Finito e seppellito il pathos di questi eventi, considerati trogloditi, fidanzamento e matrimonio sono diventati “casual”, come è un po’ tutte le attualità.

Siamo nel Terzo millennio, e chi mi sta vicino ancora si sorprende del fatto che io non sia “collegato”, con nessuno, eccetto i pochissimi amici. D’altronde , sono geloso del mio privato, come dovrebbe esserlo per tanti, che viene giornalmente, più volte, e con maleducazione, disturbato. Tra poco, sarà Natale, evento religioso e ieri profondamente familiare. Si diceva: Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi. La famiglia, tutta, era partecipe nel coronare il 25 dicembre con raccoglimento e con gioia, a partire dai bambini, che scrivevano con grande fatica, una letterina a Gesù ed ai genitori, che veniva letta prima di iniziare il pranzo. Ma già alcuni giorni prima si metteva in moto la “macchina” affinchè tutto fosse pronto per festeggiare la Natività.

Il Babbo, con i piccoli, nel bosco per l’alberino di Natale. Oggi; quello è falso come tutte le decine centinaia di palle perché lo dice la moda. Uno sfolgorio di colori, e di forme, tanto da non riuscire a scorgere cos’è che li sorregge. Così babbo, un gineprino, che bucava un po’, su quello, pochi oggettini come i cioccolatini rivestiti da una plastica dorata tanto da sembrare monete; e poi, dolciumi vari, ma pochi. Sotto, non ricordo ci fosse qualcos’altro. Alla ricerca dell’alberello nella selvetta del nonno, oggi tribuna del campo di calcio villese, si accompagnava la raccolta del muschio, borraccina, con la quale si realizzava il Presepe.

La sua preparazione era la felicità di noi ragazzini perché ci si sbizzarriva sulla collocazione dei figuranti di gesso, lasciando vuota la culla nella stalla così come il suo letto: era il compito che veniva risolto dopo mezzanotte, quando noi dormivamo, stanchi, ma eccitati com’era l’aria che si respirava in tutte le case. Nell’attesa, chi aveva ancora i nonni, si radunavano i nipotini per ascoltare le vicende della loro guerra. Per i più vecchi, Cavalieri di Vittorio Veneto, onorati troppo tardi e in malo modo, nel ricordare quei giorni in trincea, gli occhi lacrimavano e noi non capivamo come mai. Cari, dolcissimi nonni.

Ormai i tempi stringevano. Alla vigilia, la cucina diventava trafficata come un incrocio cittadino, e già si sprigionavano vaghi e delicati profumi. Nonna, mamma, figlia, come sempre di solito, ma la tavola, per quel giorno, doveva essere speciale. Tanti crostini, con su quel sugo dolce-amaro di cui si sono perse le tracce. Sul primo, sulla minestra era quasi certa la partenza con i tortellini in brodo, quello ottenuto con la gallina vecchia, sulla cui superficie comparivano chiazze giallo-cupe. Poi, i tordelli, che derivano proprio dia tordi perché grassi con il ripieno, da sempre motivo di discussione sul suo contenuto. C’erano, dopo, galline e conigli arrosto, alla cacciatora e fritti. La carne rossa era cara, e la sua comparsa in tavola piuttosto rara.

Certo, era un pranzo quasi luculliano, ma ieri non si buttava niente, e agli avanzi facevamo ancora festa nei giorni successivi. Era la festa dell’anno, e questa positiva tensione ti entrava dentro e coinvolgeva grandi e piccini. Faceva freddo, ma non ricordo la neve e anche se ne sentivamo la mancanza, quella è apparsa con i cartoni animati di Babbo Coca-Cola Natale, dalla veste rossa sponsorizzata come il colore di quella bevanda. 

Ieri, non era ancora quel tempo. Allora, tutto era svolto più semplice e modesto ma trasmetteva colore e gioia anche se ancora si usava lo scaldino e il trabiccolo. Invecchiando, la memoria fa tanti passi indietro, e cerca di recuperare volti, nomi e momenti che fanno parte della tua storia, quella che niente e nessuno ti potrà togliere perché questa è ancora viva dentro. 

Col suo inconfondibile profumo intorno, era Natale, quello vero.

Franco Corsetti