L’occasione di un evento culturale ha consentito di avvicinare uno dei volti più celebri del mondo radiofonico e televisivo del calcio italiano: il giornalista Antonino Raffa detto Tonino.
Protagonista assoluto della comunicazione sin dai primi anni Settanta, la voce e l’indiscussa professionalità di Tonino Raffa costituiscono memorabili qualità.
Potremmo scrivere più libri sulla sua carriera costellata di eventi epocali e di episodi sorprendenti.
Il noto giornalista RAI di buon grado ha risposto alle nostre domande.

D. Quali fasi della sua carriera giornalistica ritiene più luminose? Perchè?
R. «Non so se si possa parlare di fasi “luminose”. Quelle che ricordo con più soddisfazione sono legate ai sei campionati del mondo e alle tre Olimpiadi che ho seguito da inviato per il pool sportivo di Radio Rai. Aggiungerei anche i tre Europei del ’96 del 2004 e del 2008, la Coppa D’Africa del 1996 ed altri eventi di rilievo. Non solo radiocronache, ma anche incontri e interviste con personaggi di primissimo piano. Il perché è presto detto: ero un piccolo cronista di periferia, non l’avrei mai immaginato. Ho fatto il mestiere che sognavo da bambino. E ho coronato un sogno». 

D. Come avvenne il suo esordio nel giornalismo calcistico?
R. «Sembrerà strano, ma avvenne sui banchi di scuola. Durante l’intervallo, sollecitato dai miei compagni e delle mie compagne improvvisavo radiocronache. Il racconto radiofonico mi ha sempre appassionato. Già allora ritenevo fondamentale la documentazione: in classe portavo prima i giornali sportivi e dopo i libri. E li nascondevo sotto il banco. Sbagliavo naturalmente. Bisognava prima studiare. Il vero esordio avvenne verso i vent’anni quando cominciai a collaborare con qualche quotidiano e con alcuni periodici di Reggio Calabria la mia città. Ma in quegli anni mi sono occupato di tutto: cronaca nera, attualità, inchieste, vertenze sindacali. Mi “tuffavo” nello sport solo il sabato e la domenica». 

D. Quali delle sue partite commentate ritiene memorabili?
R. «Memorabili è forse esagerato. Se apro lo scrigno dei ricordi la partita che spicca di più è probabilmente Inghilterra-Germania ai mondiali del 2010. Si giocò a Bloemfonte in capitale giudiziaria del Sudafrica. Fini 4 a 2 per i tedeschi, ma si registrò un clamoroso errore arbitrale: il direttore di gara e i suoi assistenti non videro il gol di Lampard. Gran tiro da fuori, la palla dopo aver battuto contro la traversa rimbalzò di almeno trenta centimetri oltre la linea bianca e tornò in campo. La mia postazione era in alto, sul terzo anello. Ebbi subito la percezione giusta e dissi: è gol. Mi fermai per qualche istante e  vidi che, stranamente, l’arbitro fece continuare, tra le proteste furibonde degli inglesi, allora guidati in panchina da Fabio Capello. Sul monitor, quando la regia di Johannesburg mandò il replay mi resi conto che avevo visto bene. Quel gol-non gol fece epoca perché convinse la FIFA ad accelerare l’introduzione della tecnologia. La Germania poi vinse meritatamente passando il turno, ma si era sul due a uno. Quella di Lampard sarebbe stata la rete del due a due ed avrebbe cambiato l’inerzia della gara. Ecco perché si tratta di uno dei miei ricordi più nitidi».   

D. Possiamo immaginare quanto la sua vita sia ricca di aneddoti calcistici! Può ricordarne qualcuno?
R. «Aneddoti tanti. Se riavvolgo il nastro, posso citare una rocambolesca intervista a Pelè in occasione del mondiali di Francia del 1998. Prima delle semifinali la FIFA aveva promosso un evento in un grande centro congressi di Parigi, per premiare i migliori sedici giocatori di quel mondiale, scelti da una giuria presieduta da ‘O Rey’. Ingenuamente mi presentai al banco della segreteria e chiesi di intervistare Pelè per Radio-Rai . Mi guardarono con gli occhi sbarrati. Le interviste erano riservate SOLO alle prime venti televisioni che erano prenotate al mattino! Ero tagliato fuori. Poi vidi nel corridoio il collega di Rai sport Saverio Montingelli che, scrupolosamente, si era prenotato per tempo. Era in sequenza il numero otto. Tornammo in segreteria e, dopo tante insistenze, riuscimmo a spiegare che in Italia Radio e TV sono due testate della stessa azienda, li prendemmo per stanchezza e mi fecero passare insieme con la troupe TV. Alla fine riuscii a portare in redazione una intervista con Pelè per la Radio italiana, nella giornata in cui nessuna Radio del mondo aveva parlato con Pelè!. Anni dopo raccontai l’episodio ad Altafini, il quale mi fece avere, forse come premio, una maglia di Pelè con tanto di dedica personale. Quella maglia, incorniciata, campeggia nel mio studio. Sotto il vetro anche la foto con Pelè scattata al termine dell’intervista. Mi ritengo per questo un uomo fortunato. Nello stesso studio ho sistemato le mie foto ricordo con tanti altri grandi: Maradona, Eusebio, Gerd Muller, Rivera, Platini, Zoff, Del Piero, Batistuta, Kakà, Ronaldinho, Cabrini, Collovati e via dicendo. Tutte ricordano le mie interviste più fortunate». 

D. Come spiega il suo successo?
R. «Non parlerei di successo, rischierei di dare l’idea di persona che si è montata la testa. Me ne guarderei bene. Meglio dire che in ogni professione alla fine pagano sempre la tenacia, l’applicazione, l’aggiornamento, la cura dei dettagli, la voglia di migliorare per colmare le lacune ed essere sempre all’altezza del compito. Tutte queste cose ha cercato di metterle in pratica, animato da tanta passione. Ancora oggi quando esco di casa e mi chiudo la porta alle spalle, parto dai miei errori del giorno prima. Se un uomo ogni mattina non fa così quella che affronta sarà sempre una giornate persa».  

D. Quali caratteristiche rendevano eccezionali i suoi colleghi Sandro Ciotti, Enrico Ameri, Alfredo Provenzali, Ezio Luzzi e Roberto Bortoluzzi?
R. «A questi nomi aggiungerei quello di Claudio Ferretti. Diciamo che la prima, storica, pattuglia di “Tutto il calcio minuto per minuto” non à stata solo una inimitabile squadra di radiocronisti. La definirei una orchestra sinfonica che suonava a memoria senza guardare lo spartito. Di Ameri impressionavano i polmoni a mantice, il ritmo impetuoso ma allo stesso tempo scandito senza mai saltare una desinenza, Ciotti con il suo lessico ricercato e la sua competenza è stato l’anima del tecnicismo radiofonico. Di Provenzali ammiravo l’eleganza e l’asciuttezza del linguaggio, di Ferretti la pastosità della voce, di Roberto Bortoluzzi la solennità e il rigore di chi sapeva che i campi davano il ritmo e lo studio dal quale conduceva doveva armonia alla trasmissione. Di Luzzi, che ancora oggi alla rispettabile età di novanta anni è ancora sulla breccia, ha sempre apprezzato l’allegria e il fiuto del cronista incallito, quello che ricorda i protagonisti dei vecchi film in bianco e nero, che con sigaro in bocca e giubbotto annusavano con curiosità l’ambiente, rastrellando sempre notizie di prima mano. Ancora oggi ci sentiamo tutte le settimane.
Ecco, aver lavorato con questi mostri sacri ed aver beneficiato del loro affetto (all’elenco aggiungerei Massimo De Luca e Mario Giobbe), è stato un privilegio unico sul piano professionale e su quello umano. Non solo per il sottoscritto, ma per tutti gli altri colleghi che con me hanno fatto parte della seconda generazione di “Tutto il calcio” : Riccardo Cucchi, Emanuele Dotto (con i quali siamo stati compagni di corso), Bruno Gentili, Livio Forma e via via tutti gli altri».

D. Guardando il calcio di oggi avverte nostalgia del calcio degli anni ’70 – ’80?
R. «Nostalgia tanta. Ma è cambiato tutto. La fa da padrone il Dio denaro. Il calcio di oggi si è consegnato mani e piedi alle televisioni a pagamento e non resiste più al richiamo dei petrodollari, diventato il canto delle sirene che arriva dall’Arabia. La categoria che influisce di più è quella dei procuratori. Sarebbero necessarie tante riforme a partire dai vivai. Li abbiamo abbandonati, negli organici abbondano gli stranieri che chiudono la strada a tanti ragazzi di valore. La nazionale non riesce più a qualificarsi per un mondiale, siamo finiti indietro nel ranking della FIFA. Non riusciamo più a combattere il razzismo, l’odio, la violenza e la cattiva educazione. Il calcio insomma ha perso la sua dimensione popolare. Una volta i talenti si scovavano nelle partitelle in piazza o nei campetti parrocchiali. Quel calcio romantico, purtroppo, non c’è più». 

D. Nella sua carriera ha seguito ininterrottamente i campionati del mondo di calcio dal 1990 con Italia 1990 fino a quelli Sudafrica 2010. Quali di questi hanno lasciato una impronta nella sua esperienza e nel suo stato d’animo?
R. «Tutti i grandi eventi lasciano sempre qualcosa dentro. Ci vorrebbe tantissimo spazio per raccontare, Ricordo a Usa ’94 gli incontri e le interviste con i grandi del passato come Carlos Alberto, Rivelino, Junior, Tostao, Gerson. Ma Ricordo anche la paura ai Giochi di Atlanta nel ’96 dopo l’attentato al Parco olimpico che ci obbligò a lavorare per 24ore di seguito per effetto del fuso orario.
Le Olimpiadi Atene mi colpirono molto sul piano del sentimento. Rivedere i luoghi dove i Giochi sono nati nell’antichità è stata una bella emozione. Ha rappresentato un tuffo rigeneratore nelle acque di un passato permeato di cultura e di civiltà».