In questi giorni, fra i più amari della drammatica storia del popolo palestinese, mi tornano in superficie immagini, dialoghi, sensazioni, ricordi dei tanti viaggi fatti a Gerusalemme, in Cisgiordania e nei campi dei palestinesi.
Nel 1982 andai all’università di Bir Zeit, erano i giorni dei bombardamenti israeliani a Beirut dove erano rifugiati molti combattenti dell’OLP e lo stesso Arafat, era il tempo di un grande movimento pacifista israeliano PeaceNow. La notte con i pacifisti ebrei e palestinesi seguivamo, ascoltavamo insieme le notizie di guerra che venivano da Beirut e insieme si soffriva e si progettava la resistenza alla guerra e all’odio.
Venti anni più tardi, tornai a Ramallah con un piccolo gruppo di parlamentari italiani, l’obiettivo era quello di liberare una delegazione pacifista europea prigioniera in un ospedale. Prigioniera, perché i cecchini israeliani impedivano di uscire ed entrare dal nosocomio. Lo stesso Arafat, sempre a Ramallah, era assediato dai blindati israeliani. Erano passati solo due decenni, ma molto era cambiato. Il movimento pacifista era in gran parte disperso; nel 1995 era stato assassinato il primo ministro Rabin, reo di aver cercato realmente una soluzione politica al conflitto arabo-palestinese; si erano moltiplicati gli insediamenti israeliani abusivi nei territori palestinesi, la Cisgiordania era di fatto occupata. Insomma si erano create tutte quelle condizioni che in pochissimi anni hanno portato al potere, in Israele, il peggiore dei presidenti possibili, alla crescita esponenziale del fondamentalismo islamico e alla egemonia di Hamas nella striscia di Gaza.
Sulle ragioni di questa drammatica parabola che ha trasformato gli ebrei di Israele da vittime a carnefici, e che ha consegnato la realtà palestinese, un mondo laico, progressista, per molti versi di sinistra, al fanatismo islamico si è scritto e si continua a scrivere moltissimo. Oggi “a babbo morto” noti e meno noti personaggi distribuiscono su tutti i mezzi di comunicazione inutili e spesso dannosi consigli: è un festival di stupidità, di ipocrisia e di arroganza. La cosa più vera e seria l’ha scritta l’ex ambasciatore italiano in Iran e in Cina, Alberto Bradanini: “I popoli dovrebbero imporre ai loro governi il rispetto del criterio filosofico, prima ancora che politico, della logica dialettica, ovvero la critica – lo affermava anche Mao Zedong – va fatta prima, e non, comodamente, dopo che gli eventi hanno avuto corso”. Questa distrazione delle classi dirigenti occidentali ed arabe non è innocente. Gli Stati Uniti e gli europei – non certo per il complesso di colpa per le sofferenze inflitte al popolo ebraico nel secolo scorso dai nazisti tedeschi, hanno consentito a Israele ogni violazione contro la legge internazionale e la morale. Uno dei fondamenti delle Convenzioni di Ginevra – che si occupano delle vittime di guerra e degli aspetti umanitari dei conflitti – è il divieto di punizioni collettive, e di rappresaglie contro la popolazione civile, che non è responsabile dei crimini di governi, eserciti o terroristi.
Le nazioni europee, per non parlare dell’Unione Europea e della Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ignorano questi elementari princìpi e diritti, e oggi Gaza rappresenta la più solare violazione del diritto internazionale dell’intero pianeta terra. La realtà è che l’America e i grandi paesi europei hanno pensato ad Israele come ad una quinta colonna nel mondo arabo a tutela dei grandi interessi del mondo occidentale.
Il mondo arabo, al di là del sostegno di facciata della causa palestinese, ha sempre temuto la contaminazione, il contagio politico e culturale di una classe dirigente, di una ‘intellighenzia’, quella dei palestinesi, che era ben altra cosa dalle satrapie arabe. E sempre il mondo arabo ha considerato la questione palestinese non un grande problema da risolvere, ma uno strumento utile nelle lotte intestine e una moneta di scambio nel mercato politico internazionale.
L’incontro fra ebrei-israeliani e palestinesi, se fosse avvenuto in pace, in uno spirito di cooperazione e fratellanza, come ai primi degli anni ‘80 veniva sostenuto dagli stessi ebrei e palestinesi progressisti, avrebbe rappresentato un cambiamento radicale per l’intera area medio- orientale. Non una distrazione, né la psicologia politica, ma grandi interessi hanno spinto questi due popoli nel baratro della guerra fratricida, del terrore e della barbarie. Questi ultimi 30 anni hanno sepolto sotto un mare di violenza l’idea dei “due popoli e due stati”, la cricca di Nethanyau nella complicità generale ha operato e continua ad operare per cancellare strutturalmente questa possibilità e Hamas ha servito su un piatto d’argento al governo israeliano la possibilità di portare un metro più in là il lavoro sporco.
Fermare la guerra, fermare il genocidio dei palestinesi, trovare una soluzione politica, non è solo una scelta di alto valore morale, non è solo il rispetto di princìpi sacrosanti del diritto internazionale, ma è la condizione prima per non bruciare ogni speranza per il domani. Sono stati barbaramente trucidati 1.300 cittadini israeliani e fra questi 40 bambini israeliani nel Kibbutz di Kfar Aza; sono stati altrettanto barbaramente uccisi ad oggi, mentre scrivo, più di 6.500 palestinesi, e più di duemila bambini sono morti a Gaza sotto i bombardamenti israeliani. Cos’altro deve accadere per fermare la macchina della vendetta di Nethanyau, dobbiamo forse arrivare alla proporzione dell’eccidio delle Fosse Ardeatine dove per ogni nazista ucciso sono stati fucilati 10 cittadini italiani? O bisogna arrivare alla politica “del massacro e della terra bruciata” per bonificare la striscia di Gaza da Hamas?
In questa notte buia della ragione e dei sentimenti resiste la fiammella del movimento WomenWagePeace, l’associazione che ha base in Israele e che dal 2014 tiene insieme, in nome della pace, donne arabe, ebree e cristiane. Dopo una grande marcia il 4 Ottobre, oggi tornano dopo 10 giorni dall’attacco di Hamas a far sentire la loro voce con un comunicato: “Tendiamo una mano di pace alle madri di Gaza e della Cisgiordania. Noi mamme, insieme alle donne di tutto il mondo, dobbiamo unirci per fermare questa follia”.