Ho ben presenti le discussioni che si facevano fino a pochi mesi fa con le altre mamme – discussioni che ci trovavano quasi sempre tutte d’accordo – circa l’opportunità o meno di far giocare i nostri figli piccoli con tablet e smartphone. La posizione che condividevamo quasi tutte era più o meno quella dell’utilizzo limitato al massimo: piccole concessioni, a cena fuori se sono presenti altri amici che ce l’hanno, in sala d’attesa dal dottore se non c’è nulla da leggere, ma poi basta, se ne riparla quando saranno adolescenti e non se ne potrà proprio fare a meno, e anche in quel caso con restrizioni e regole ben precise.

Poi è iniziata l’emergenza Covid-19 e improvvisamente tutto è cambiato. Tablet e smartphone si sono sostituiti alle lezioni in presenza, nel giro di pochi giorni i nostri figli hanno dovuto imparare un nuovo modo di fare scuola e noi genitori ci siamo adeguati. Chi con più dimestichezza chi con meno, ognuno di noi ha scaricato app, imparato a usare insieme a loro programmi per le videolezioni e la condivisione dei materiali di studio, messo mano a microfoni e telecamere quando non funzionano, ampliato la quantità dei giga sui telefoni quando questi non bastano per tutte le cose che ci sono da fare. Abbiamo acquisito delle skills che ci torneranno senz’altro utili in futuro, insomma, e questo potrebbe anche riservare degli insospettabili lati poetici: in fondo siamo entrati forse per la prima volta nel mondo dei nostri figli, abbiamo imparato qualcosa di un linguaggio che per loro è molto più familiare che per noi. Eppure.

Eppure sentiamo che qualcosa manca, qualcosa non funziona. La didattica a distanza è l’unica opzione possibile per traghettare l’anno scolastico verso la fine, e non perdere ciò che è stato fatto nei mesi precedenti alla chiusura delle scuole. La politica e la televisione l’hanno subito dipinta con i toni enfatici che sono loro consoni, come il successo strepitoso di un esercito di docenti e studenti che vincerà compatto la guerra contro un nemico insidioso e invisibile. In realtà man mano che passa il tempo i limiti di questa strategia si fanno sempre più evidenti, e l’umore dei soldati sempre più cupo. I limiti tecnici sono numerosi: connessioni lente, device vecchi o difettosi, problemi con i programmi per le videolezioni. Ma uno degli aspetti che più preoccupano i docenti è quello della difficoltà di valutare serenamente i progressi degli studenti, perché se è vero che la stragrande maggioranza di loro si è adeguata al nuovo sistema e segue con costanza, c’è anche chi non lo fa, e certo sarà difficile stabilirne il motivo. In quei casi qualunque decisione sarà presa dall’insegnante sarà una decisione amara, sia nel senso della clemenza che in quello della severità.

C’è poi la difficoltà di trasmettere contenuti che non siano solo vuote parole quando manca il contatto diretto con la classe: la sensazione è che per i ragazzi sia più difficile seguire, comprendere i ragionamenti che l’insegnante richiede alla classe mentre spiega, e interagire di conseguenza. A volte, le domande restano senza risposta, e non soltanto perché l’audio magari non funziona: semplicemente perché i motivi di distrazione sono molti di più, l’attenzione più bassa, la motivazione più debole. Ero abituata, come docente, a utilizzare la tecnologia come un supporto, utilissimo ma non indispensabile; adesso la tecnologia è diventata la protagonista delle mie lezioni, l’ospite senza il quale la festa non inizia, e sinceramente mi provoca un po’ di fastidio. Ma è senz’altro un fastidio legato alla paura e alla preoccupazione: al momento non si sa con sicurezza quello che accadrà a settembre, e in quale modalità riapriranno le scuole, ed è difficile rassegnarsi all’idea che forse dovremo aspettare ancora un po’ prima di poter rifare lezione in presenza.

Nel frattempo, vado avanti diligentemente così, cercando di essere allegra e fare del mio meglio anche se mi muovo in un ambiente che non mi è familiare. Spesso quando i miei studenti parlano attraverso il microfono non ne riconosco la voce, e devo farmi dire il nome: e questa è una delle cose che mi dispiacciono più di tutte. Il senso del mio lavoro è tutto qui: sapere sempre chi ho davanti. Quando non succede, resta un po’ di amarezza che è difficile non far trapelare attraverso lo schermo.