Nel 1917, 18 e 19 si manifestò una gravissima epidemia influenzale, detta la Spagnola, che fece più vittime della guerra. Anche nel nostro comune non passava giorno che non vi fossero 4-5 funerali. In pochi mesi morirono varie centinaia di persone”.

Queste le parole dell’allora Segretario Comunale di Pescia Renzo Battaglini annotate nel suo Diario di un Cinquantennio. Parole che evocavano la drammatica situazione che si viveva all’indomani della Prima Guerra Mondiale e alcuni mesi prima del terribile terremoto del settembre 1920 che colpì prevalentemente Garfagnana e Lunigiana, ma si fece sentire anche sulla nostra montagna.

Il virus H1N1 responsabile della Spagnola aveva compiuto un “salto di specie” portandosi dagli uccelli all’uomo; si trattava di un virus ad RNA, con propria replicazione nel citoplasma cellulare invece che nel nucleo e che poteva mutare rapidamente divenendo più aggressivo. Questo virus si diffuse in maniera molto rapida, favorito dagli spostamenti dei militari, dai primi viaggi dei civili, dai campi e dagli ospedali sovraffollati, dalla malnutrizione conseguente alla guerra e alla recessione economica, dalle scadenti condizioni igieniche e dalla assoluta mancanza di presidi farmacologici (è di circa 10 anni dopo la scoperta della Penicillina da parte di Fleming).

Il bersaglio principale furono le persone tra i 20 e i 40 anni, quindi quelle più forti fisicamente ma anche più impegnate nel lavoro o nelle operazioni belliche; probabilmente in questi individui il virus riusciva ad innescare una potente reazione infiammatoria con conseguenti importanti danni ai tessuti polmonari e quindi una severa insufficienza respiratoria che conduceva a rapida morte dopo pochi giorni di tosse secca e febbre alta, talora causata dalla sovrammissione di una polmonite batterica.

Forse gli ultraquarantenni risultavano protetti da questo virus perché a fine 1800 vi sarebbe stata un’epidemia influenzale con conseguente immunizzazione e quindi protezione contro i successivi virus influenzali tra cui quello della Spagnola.

L’epidemia, forse diffusa dai soldati americani sbarcati in Europa nel 1917, o forse nata in Cina o in Francia, si diffuse velocemente in tutto il mondo: pochi mesi furono sufficienti mentre per la Peste del XIV secolo erano stati necessari 7 anni per far ammalare l’Europa intera.

La Spagnola provocò la morte di 30-50 milioni di persone nel mondo; in Europa la nazione più colpita fu l’Italia con 400-600 mila morti su un numero totale di abitanti pari a 40 milioni e la Toscana, con circa 30 mila vittime, fu la regione del centro nord più colpita. Lucca ebbe moltissimi morti, specie in Garfagnana, e a Pistoia se ne contarono 2000; rimasero moltissimi orfani.

La pandemia influenzale arrivò ufficialmente nel gennaio 1918, anche se il Battaglini annota i casi nel nostro Comune sin dalla fine del 1917; terminò poi nel dicembre 1920 dopo aver mostrato 3 principali ondate: primavera/18, autunno/18, inverno/18-19.

Nella zona di Pistoia, all’epoca in provincia di Firenze, si evidenziarono subito le difficoltà nell’ambito dell’assistenza sanitaria pubblica con gravi carenze nel reperire fondi, personale sanitario e strutture di cura; molti dei medici erano ammalati o in quarantena e l’esercito non poteva inviare i propri medici militari in quanto impegnati in guerra o negli ospedali; anche il servizio comunale di rifornimento di generi alimentari e di prima necessità si mostrò inadeguato.

A tal proposito il Segretario Renzo Battaglini sul suo Diario scriveva: “Ricordo che su invito della Prefettura dovevamo preparare i locali da destinarsi a ricovero dei contagiosi, cioè il Lazzaretto; vennero scelti alcuni vasti stanzoni nel Monastero delle Salesiane. Per prendere accordi con la Superiora e poter disporre i necessari provvedimenti andammo io e l’ispettore di P. M. Tosini. Lungo i corridoi che attraversavamo una vecchissima suora con una campanella suonava continuamente perché la clausura impediva alle suore di vedere estranei. Tutto bene preparato e attrezzato ma poi non fu usato. Altra grave preoccupazione del sindaco e degli assessori fu il servizio annonario e particolarmente l’approvvigionamento dei generi alimentari indispensabili. Tutto scarseggiava e il popolo mormorava; il pane marrone scuro, il burro, etc…; si ricorreva alla farina dolce e a quella di granoturco, quando si trovava. Erano molti necci e polenta. Centinaia di persone in corteo venivano sotto il palazzo comunale e inveivano contro il Sindaco come se la colpa fosse sua. In verità gli amministratori facevano tutto il possibile per ottenere i generi alimentari. Tutti i giorni il Sindaco o l’Assessore all’Annona andavano a telegrafare al Prefetto, al Presidente del consorzio annonario di Lucca (dipendevamo da quella provincia) per sollecitare l’invio di grano ed altri generi e purtroppo quanto si poteva ottenere era poco rispetto alle reali necessità, ma di più non c’era e bisogna arrangiarsi”.

I Quaderni Fare Storia del 2016 raccontano che: “nel 1918-19 a Pistoia era fiorente il mercato nero con prezzi elevatissimi e salari molto bassi; l’Ospedale del Ceppo viveva una grossa crisi finanziaria e quindi riusciva a offrire solo livelli minimi di assistenza….. Poco prima della pandemia c’era stata un’epidemia di tifo… . L’ospedale aggravò la propria crisi finanziaria e i neonati avevano necessità di essere allattati perché le madri erano malate. I medici curanti erano oberati di lavoro e molti di loro erano stati richiamati al fronte…

La pandemia mise in crisi anche il rifornimento annonario di Pistoia e del circondario. Mancava lo zucchero e si facevano lunghe file fuori dai negozi, ulteriore causa di contagio. Per questo motivo nell’ottobre 1918 furono istituite rivendite alimentari riservate esclusivamente agli ammalati, isolandoli così dagli individui sani. Anche l’invio di militari per tumulare le salme fu rifiutato. Per la mancanza di materiali e di mano d’opera i morti venivano tumulati avvolti in un telo bianco imbevuto di sublimato…

Alla situazione non giovò, dopo Caporetto, l’afflusso in città dei profughi veneti bisognosi di assistenza… Le lunghe file fuori dai negozi si ingrossarono, diventando tra i principali vettori del virus. Il Comune emanò misure contro gli affollamenti e fu limitato ai malati l’accesso ai punti di distribuzione. Nonostante i divieti, molti malati, per timore di non ricevere la propria quota, si recavano ugualmente nei luoghi preposti all’approvvigionamento, esponendo al contagio i cittadini ancora sani. L’amministrazione di Pistoia, sull’esempio di altre città, istituì delle rivendite alimentari riservate ai malati”.

L’atteggiamento del Governo Nazionale, almeno all’inizio, fu quello di minimizzare l’esplodere dell’epidemia, censurando i dati reali, al punto che veniva raccomandato ai sindaci di “smentire ogni notizia che avesse carattere di gravità “; stesso comportamento fu tenuto da parte della stampa e i bollettini sanitari furono contraffatti; veniva raccomandato di tenere alto il morale, “miglior disinfettante, insieme alla vita morigerata e l’umile preghiera a Dio”.

Ospedale a fine '800