Femmina, come decise il Vate, Gabriele D’Annunzio.

Tutto ebbe inizio nel lontano fine agosto del 1960. Allora, la Scuola Alberghiera imponeva, per il passaggio alla classe successiva, un tirocinio pena la bocciatura. Non so come funzioni oggi perché, quando vai in pensione conti zero; sicuramente, molto sarà cambiato, come la natura di tutti gli eventi umani.

Di sicuro, allora gli studenti erano circa 150, più o meno: oggi, leggo che sfiorano il numero di 1500, smistati su tre sedi: incredibile, ripensando a quel mio passato, ormai – ahimè – remoto. Tempi memorabili? Certo! Chi non ricorda con tantissimo affetto, gli anni dell’adolescenza e della prima gioventù con la classica definizione britannica, di “teen-ager”. Gli accadimenti di allora (i più importanti) che ormai fanno parte di noi stessi, e che ci accompagneranno, con tanta nostalgia, fino alla prossima stazione.

La fine agosto del 1960, dicevo, è rimasta nella mia mente per un fatto particolare, anche perché inaspettato e perciò incredibile. Dunque: lavorando come commis de rang presso l’Hotel Select Petrolini, quello proprio di fronte al glorioso Gambrinus, ed oggi ormai chiuso da decenni (1’abbandono è un fatto che mi rattrista profondamente), il 31 di quel mese si chiuse quella mia prima esperienza “sul campo”. 

Babbo veniva da Collodi con il Motom, evitando le ore di riposo degli ospiti che, non sono sicuro, vietava la circolazione privata dalle 14 alle 16. O prima, o dopo, lui mi portava gli indumenti di servizio lavati da mamma, e riprendeva quelli utilizzati in sala da pranzo. Era diventata, la sua, una routine, che era entrata a far parte del mio vivere settimanale.

Il Motom. Oggi mi dicono sia stato un bel motore, anche se io, con le due ruote, non ebbi una grande esperienza, e non sbocciò l’affetto necessario che invece era fiorito nei miei coetanei. Un episodio emblematico. I genitori ed i fratelli di babbo allora abitavano a Villa Basilica, e lui mi portava lassù per qualche giorno di vacanza.

Prima di montare su quelle due ruote, m’imbottiva il petto di fogli di giornale, e si raccomandava che io seguissi i movimenti che lui faceva nell’affrontare le curve e, per arrivare al piccolo comune, quelle non mancavano.

E’ da lì che l’affetto per le due ruote rimase molto tiepido: lui curvava, ed io rimanevo rigido come un baccalà di S.Giovanni. Poi, dopo quella a sinistra,c’era la curva a destra, ed io, anchilosato, tanto che dire guardingo è dire poco.

Pesavo poco, allora, e non sbilanciavo la sua guida, ma le brevi vacanze a Villa la preferivo a piedi, salendo – e scendendo – per la Magia, un bellissimo lastricato che ricordo (questo sì) con tanto piacere, e che oggi – da decenni non lo faccio più! – mi sembra, anche lei abbandonata.

Insomma: babbo mi aspettava all’uscita di servizio del Select, che era di fronte al lato destro del Grand Hotel et La Pace e, dopo aver salutato con tanto calore Franco Giuliani, che mi aveva “adottato” come fratello, mi apprestai a salire sulla moto, con la solita poca convinzione.

Ritornavo a casa, dai miei amici; avrei ripreso i giochi semplici, quasi infantili che avevo abbandonato per due mesi. Vivevo, nell’Istituto Alberghiero, un percorso di studi nuovissimo e, soprattutto per le Esercitazioni Pratiche, avrei intrapreso una strada che mi avrebbe costretto a girare l’Italia, e l’estero, senza sosta, tagliando nettamente il passato e il presente, e mi rendevo conto, inconsciamente che quello non sarebbe stato il mio futuro.

E la moto? Dov’era il Motom?? “Babbo mi prese per mano e, fatti pochi metri, mi disse: “Su, monta!”, e vidi l’automobile. Era la “600”, che lui aveva comprato a rate dal Morescalchi.

Il colore era quello verde chiaro e le portiere controvento: questi furono i particolari che subito mi colpirono. Ma, dentro, qualcosa successe e che ancora mi accompagna: fu un amore a prima vista.

Così, a bocca aperta, rimasi a rimirare quell’ oggetto, ma stentavo a capire completamente che tipo di sorpresa lui mi avesse fatto. Un’automobile!, e ancora non credevo che fosse

una realtà ma solo un sogno.

Fu da allora che quell’innamoramento non è più cessato. A volte – l’abbiamo provato tutti e tutte – l’effetto shock svanisce col tempo; quante cotte abbiamo preso, poi svanite come una bolla di sapone. Puff!, e il giorno dopo, tra lucciconi e imprecazioni, tutto finiva.

Invece, quel posto che la macchina prese dentro di me, continua ancora ad accompagnarmi. Nel corso degli anni, di auto non ne ho cambiate molte, anche se prima i costi erano più abbordabili; ma quando salivi di cilindrata, quelli diventavano Everest o K2.

Non che non abbia vagheggiato di sedermi in un bel macchinone che, a quei tempi, erano le auto americane, esagerate come loro, che ci lasciavano senza fiato con quelle code senza senso.

Poi, quelle macchine sportive, tipo Ferrari o Alfa Romeo, magari decappotabili, con i capelli al vento; ma, meno male, con un “bel sospirone, tornava la realtà, e “buonanotte suonatori.

Ricordando i vari cambi che feci, due, in particolare, ancora, mi accompagnano più degli altri. Il primo, la 500 Giardinetta, che io chiamavo “Giardiniera” o “Station Wagon”; e il secondo, la 127 blu cobalto con la quale Bruna ed io trascorremmo il viaggio di nozze da casa fino a Llandudno (e anche Edimburgo) per ritrovare i nostri carissimi amici Lucio e Yolande: che avventura! 

Ma, alla resa dei conti, cosa significò la macchina, per la, mio, generazione? Significò la libertà, e la soddisfazione di veder premiato chi, già a 14 anni (e forse anche prima), era andato a lavorare, anche se la maggiore età scattava al compimento del 21° anno.

La “cinquecentina” era l’obiettivo che spronava il raggiungimento di quel traguardo, e i più “sfegatati” già montavano le marmitte “Abarth”, e via a sgassare anche se era necessaria la “doppietta”, altro che cambio sincronizzato !

All’inizio, fu proprio libertà. Io, con la 500 S. W., andavo tranquillamente a Firenze, in via Sangallo, e trovavo pure il parcheggio. Poi, piano piano, la situazione cambiò.

Le macchine furono prese d’assalto e divennero sempre più numerose, così come le cambiali, e – ovviamente – più raffinate e quindi ingombranti. Il traffico crebbe in maniera esponenziale, e “nacquerono” le code, gioie e dolori soprattutto la domenica, per il salto settimanale al mare in Darsena.

Parcheggiare divenne sempre più difficile, e l’istinto italiano dette libero sfogo al lato peggiore che ormai ci contraddistingue : maleducazione, cafonaggine, prepotenza.

Ma la macchina no, non era l’arma fumante del delitto; rimaneva pur sempre un obiettivo da raggiungere e, soprattutto da migliorare. Via gli sportelli controvento, via la doppietta, via lo spazio esiguo: aumentavano le cilindrate, la bellezza, la comodità, il n° dei cambi e, logicamente, i prezzi.

Oggi siamo davanti ad un altro snodo: la macchina che guida noi! Mah! Dicono che sarà il futuro, ma io, che sono già vecchio, il piacere di marciare usando mani e piedi mi sembrava, e mi sembra, una delle soddisfazioni più belle della vita: io guido, e tu macchina esegui, perbacco! 

Ormai, il mondo è della tecnologia, volenti o nolenti, e guardo con un velo di nostalgia il raduno delle macchine d’epoca che, tra quelle, ci sono anche i miei sogni come la Fulvia HF del “Drago” Munari, per la sua carrozzeria originale.

Altri tempi, altre umanità e società. Però, tutti questi cervelloni, che sfornano annualmente macchine sempre più meravigliose, mi portano a fare una considerazione forse poco ragionevole, come un sogno di mezza estate.

Questi “fenomeni” che studiano il futuro dell1automobile, vogliono risolvere il problema dell’inquinamento qui sulla terra; oppure, vogliono portarci nello spazio per un week-end originale e senza traffico così da avvelenare anche i nuovi mondi?

Ormai, hanno inserito nelle loro creazioni tutti i conforts possibili e immaginabili, e tutti i servi: servo sterzo, servo freno e, chissà, un servo della gleba in caso di foratura gomma. E la gioia di guidare? E la “doppietta”? E il riparare a mano con un fil di ferro un guasto abbordabile? Sembra di citare un mondo lontano decine di anni perché oggi la macchina la ripara un computer, vuoi mettere?, e la pompa della benzina sarà sostituita da una colonnina che caricherà l’elettricità necessaria, ma dove poi la troveranno tutta quella …

Ma, mi chiedo: non stanno andando troppo in là e troppo velocemente? Avevamo, “C’era una volta”, un adagio che dovrebbe essere più che mai una regola ancora oggi: “Chi va piano, va sano e va lontano”. Mi sono goduto i miei cari momenti di libertà con un’utilitaria o poco più. Si pagava a rate, la benzina costava poche centinaia di lire, la comodità era sacrificata al prezzo, ma la guida aveva un piacere speciale.

Cari, dolci memorie, di un mondo ormai lontano rispetto a quello di oggi, che non riesco più a capire.