Nel momento in cui si comincia il girone di ritor­no, il primo effetto evidente è la durata del tempo: ieri, non ti bastava, mai; oggi, e più domani, non passa mai. Tutto questo, nella normale evoluzione del modo di vivere, che segna, il “progresso” dell’umanità. Progres­so tra virgolette, per me, in quanto ho la netta sensa­zione che la velocità non sia la soluzione dei tanti problemi che ci affliggono. Opinione personale, spero rispettata, e per questo sicuramente discutibile.

Non voglio parlare di velocità: gli esempi sono innumerevoli e sotto gli occhi di tutti: nello sport, nelle comunicazioni, nel lavoro, nella moda, anche nella spesa. E pensare? E riflettere? E sognare? Va bene così, comunque. D’altronde, come e chi potrebbe “fermare” il mondo, e farlo scendere da quel treno superveloce su cui tutti, o quasi, siamo saliti?

 

Perso l’interesse per la Letteratura già da tanto tempo, ho concentrato le mie letture sulla Storia e sulla Saggistica. Storia senza limiti e confini (“La Storia vince sempre, su tutto”), ma che sia obbli­gatoriamente semplice e chiara; ne ho fatti di studi seri e barbosi, e anche la Storia dei manuali mi convince poco. Un libro ha centinaia di pagine. Lo soppeso con sospetto. Lo apro, ne leggo 5 o 10 pagine di quello, e il sospetto si fa certezza: quel libro è stato scritto per l’autore, per se stesso, non per i lettori. Lo ri­chiudo; lo metto in un angolo, e ne lascio il suo godimento a chi è più bravo di me. Oggi, lo faccio; oggi, leggo ciò che più mi piace: periodi brevi, capitoli corti; lettura scorrevole, con­tenuti profondi ma semplici, comprensibili anche, e soprattutto, a chi vuol sapere, approfondire, senza farsi venire il mal di testa (o qualcosa di simile).

 

Ultimamente, ricercando un testo di cui avevo bisogno, mi sono imbattuto in un libretto scritto da Renato Fucini, “Le veglie di Neri”. E’ una piccola raccolta di episodi di vita contadina toscana, sul filone della corrente letteraria del Verismo di fine ‘800.

Alcuni brani si leggono ancora bene, ma ormai sono lontanissimi da noi, come “I Malavoglia” . Ciò che, invece, mi ha colpito è stata la parola “veglia“. Ne abbiamo perse le tracce, da decenni. Sono convinto che molti, tra i giovani e meno, di oggi, non ne conoscano il significato.

 

“Andare a veglia” significava che una, o più fami­glie, si recavano in casa di un amico comune per trascorrere la serata insieme, con semplicità, parlando dei piccoli fatti accaduti nel paese, sbocconcellando frugalmente qualcosa, magari le castagne, i “balloccioli”.

Chi ha fatto quell’esperienza, ricorda la luce un po’ fioca, il lento trascorre della sera, il cammino acceso, con la nonna vestita in nero, lo scaldino e il gat­to che faceva le fusa. Di solito, la tombola, con le cartelle che si pagavano poche lire, e con i numeri estratti (e la loro “storia”) che venivano segnati con un fagiolo o un chicco di granoturco. “Fare” un ambo era già un piccolo successo; non parlo dei colpi grossi: cinquina o, addirittura, tombola. Mi sembra di ri­cordare che i più fortunati fossero sempre gli stessi, e non mancava l’invidia per delle vincite che sembrava­no enormi, ma erano minime. La tombola era la regina della serata ma, a volte, quella trascorreva con le chiacchiere sugli accadimenti della giornata, della settimana; e, a volte, veniva detto il rosario per i cari defunti. Le voci erano basse; i commenti misurati; l’atmosfera quieta, intima. Un piccolo incidente; un ricovero; un episodio fuori dalla paesana, normalità: tutto innescava confronti, e giudizi, che avevano già la conferma di tutti i presenti.

 

Si parlava di valori, oggi perduti: onestà, retti­tudine, pudore. La Chiesa, il Sindaco, i Carabinieri (ri­cordo ancora la Stazione -e la prigione!- a Ponte all’Abate)  erano la base, le fondamenta del paese, con la Farmacia, ieri proprio dove oggi c’è il semaforo.

L’appuntato veniva in bicicletta dalla caserma; il parroco, punto di riferimento spirituale; il sindaco quale personaggio più importante della vita civile. Ricordo che bastava uno spazzino per tenere in buon ordine le strade paesane; o, forse, eravamo noi più ordinati e civili di quanto non lo siamo più oggi. Veglie in casa di amici dei miei genitori. Era un’a­bitudine che durò finché la TV le travolse: dapprima, seguita con sbalordimento ed entusiasmo; poi, con la noia che oggi proviamo tutte le volte che si presenta una novità; dopo 3-5 volte, ci stufiamo, e ne pretendiamo una ancora più nuova. Quelle, invece, erano sempre uguali, come gli invi­tati, che avevano a disposizione quasi le stesse sedie, gli stessi bicchieri. Certo, “Le veglie di Neri” erano un’altra cosa; le storie che rammento non avevano né l’intensità, né la drammaticità di quelle. Le nostre, solo piccoli eventi di quartiere, di rione, quando ancora Veneri (per non parlar di Pescia) ci sembrava un territorio lontano, poco conosciuto.

 

Poi, le ore trascorrevano lentamente e, ad un se­gnale convenuto, tutti si alzavano. Un po’ di colpa era mia, dei ragazzi piccoli; “Arrivano i Pisani!”, e mai ho capito perché venissero quelli quando gli occhi mi si chiudevano. Ci s’imbacuccava (era inverno, era fred­do); un ultimo saluto, e la giornata si chiudeva definitivamente.

Erano serate noiose, con la mentalità di oggi. In­fatti, tutto sembrava ripetitivo: i discorsi, i gesti, le persone. L’ansia del tempo che scorre veloce proprio non esisteva. Il fuoco, alla fine, non scoppiettava più, nel cammino.

Ci salutavamo ancora. La veglia era finita; domani, un altro giorno, in un percorso che allora era lo stesso, che sembrava lo stesso, immutabile.

La strada giusta? Io non ho ricette, né soluzioni. Cerco di ricordare quello che ero, quello che mi senti­vo, e credo di aver vissuto in un mondo molto più bona­rio e sincero, plasmato da un profondo calore umano che non so più dove si sia perso.

Franco Corsetti