Poche settimane fa sui quotidiani e sui siti di informazione campeggiava la notizia della dirigente del Liceo “Montale” di Roma che, in seguito a una presunta relazione con uno studente maggiorenne, aveva subito un’ispezione da parte del Ministero della Pubblica Istruzione, ed era in attesa di un provvedimento disciplinare (che poi non c’è stato, dal momento che lo studente ha ritirato le accuse e si è scoperto che le chat che testimoniavano la relazione non esistono).

Senza entrare nel merito dei fatti, anche se ci sarebbe molto da dire, soprattutto a proposito del trattamento indecoroso che la stampa ha riservato alla dirigente, la vicenda ha avuto uno strascico che in qualche modo, probabilmente, si estenderà al mondo della scuola. L’associazione dei Presidi del Lazio, infatti, dopo una riunione che si è tenuta agli inizi di aprile, ha rilasciato un comunicato relativo al codice deontologico che si dovrebbe rispettare nella scuola, per evitare che il piano professionale interferisca o si sovrapponga con quello personale. Non si tratta di un’imposizione, ovviamente, ma di un suggerimento (l’augurio dell’ANP tuttavia è che venga trasformato al più presto in un documento più ufficiale), che ha scatenato la solita scia di commenti e polemiche social e fatto perdere come sempre di vista quali siano i reali problemi che la scuola deve affrontare.

Il tema caldo riguarda le chat di messaggistica istantanea, con le quali gli studenti e qualche volta i genitori degli studenti contattano gli insegnanti anche fuori dall’orario di lezione: per chiedere i compiti, sapere la data delle verifiche, avere spiegazioni su un voto o altro. Abitudini che si sono consolidate durante il primo lockdown, e in qualche modo hanno fatto sentire meno soli i docenti e gli studenti stessi, ma che adesso, secondo i promotori del documento, hanno superato il limite.

Un altro aspetto del comunicato riguarda i profili social, e ha a che fare con quella netiquette che dovrebbe sempre essere il faro che guida e orienta i nostri comportamenti: sarebbe opportuno prestare attenzione alle foto e ai post che vengono pubblicati dal docente che, in virtù del ruolo educativo che ricopre, dovrebbe sempre mantenere un profilo dignitoso. Il comunicato si addentra in esempi (la pubblicazione di foto di docenti in costume, ad esempio, è scoraggiata) e suggerisce di non accettare tra i contatti i propri studenti o i loro familiari; l’impressione che se ne ricava tra le righe, comunque, è che se il docente si tiene lontano dai social è anche meglio.

A me, come sempre accade in questi casi, sono cadute le braccia. Va bene, di tanto in tanto, rivedere le norme che regolano i codici comportamentali, che vanno aggiornati in base alle nuove tecnologie e ai cambiamenti sociali; meno bene considerare i docenti dei minus habentes, soggetti con scarse capacità critiche e ancora più scarsa consapevolezza del proprio compito, che vanno guidati e indirizzati come si fa coi bambini: non solo nella sfera professionale, ma anche oltre quella linea sottile che separa il lavoro dalla vita privata e che si colloca, indicativamente, tra l’una e le due del pomeriggio, segnalata dal suono dell’ultima campanella.

Da sempre il caso singolo, nella scuola, si riverbera sulla considerazione che all’esterno si ha dell’intera categoria. Quindi, per similitudine, così come il docente che ha poca voglia di lavorare ha fatto sentenziare a plotoni di persone esterne alla scuola che i docenti sono, tutti, dei lavativi, allo stesso modo, da oggi, il docente che pubblica una sua foto in cui si mostra leggermente alticcio a una festa definirà tutti i suoi colleghi come ubriaconi senza speranza. E invece, sorpresa!, la gran parte di noi ragiona lucidamente; sa come si usano i social, sa che tipo di linguaggio richiedano, sa quali siano i comportamenti da tenere e da evitare, e, sorpresa ancora più grande, non ha mai avuto alcun problema nell’usarli. Certo, un docente di latino e greco che si metta a fare i balletti su Tik Tok potrebbe suscitare una certa ilarità, tra i suoi studenti, o addirittura un senso di straniamento; ma potrebbe anche avvicinarli alle sue materie, e potrebbe perfino, grazie a quei video, essere considerato un umano, invece che una creatura aliena che passa il suo tempo a cercare la traduzione migliore per la parola pietas.

Direi che sarebbe il caso di sentire gli studenti, no?, invece di trattare anche loro come soggetti privi di qualunque capacità di decidere cosa preferiscano. Ma solitamente, quando nella scuola vengono calate le regole dall’alto, a pioggia, prima non c’è stato alcun tipo di confronto coi soggetti che quelle regole le dovranno subire: e per un docente che sbaglia e usa male un social network ce ne possono essere altri dieci che invece ne fanno un uso corretto, addirittura utile, per tenere i rapporti con i loro studenti.

Per tornare al caso incriminato, la messaggistica, Whatsapp va messo all’Indice? A me non è mai capitato di essere infastidita, anzi, l’ho sempre trovato un sistema utilissimo per comunicare con le famiglie in modo rapido. Le chat di classe mi servono per tenere i contatti con i miei studenti, ma anche per mandare loro qualche vignetta divertente, un articolo di giornale che ho trovato interessante, l’informazione che c’è un bel film in tv o al cinema da vedere. Tramite la chat di Whatsapp una mia classe mi ha fatto un meraviglioso scherzo telefonico alla “Amici miei” su cui ancora i ragazzi mi prendono in giro e su cui ancora ridiamo: quindi si può dire che ci siamo conosciuti meglio, con questo strumento, e non è affatto un male, per il mio lavoro, anzi. Forse si dimentica che è passato un bel po’ di tempo da quando la scuola era quella dipinta da “De Amicis” nel libro Cuore. E se gli studenti mi salutano con “Bella, prof”, io rispondo “Ciao, raga”, e siamo pari. Speriamo che questo rientri nel codice deontologico della mia professione, o magari mi vanno in fumo ventidue anni di reputazione.