Io sono uno degli esempi migliori di efficacia giudiziaria, visto che, una volta tanto, hanno preso “quello giusto”. Solitamente, chi si trova nella mia situazione spreca fiato con banalità come “non me lo meritavo”o “hanno sbagliato”. Tutti innocenti, vittime di errori. Nessuno escluso, ognuno compreso. La giustizia è una fregatura che tutti accettiamo. La società non dice cosa sia giusto o sbagliato in modo diretto ma, molto più semplicemente, induce a reprimere o favorire determinati atteggiamenti in base alle conseguenze.

Prendete il mio caso: omicidio con arma bianca. Non è scritto da nessuna parte, se non nella Bibbia, che sia un atto sbagliato. In modo molto semplice, quando si decide di accoltellare qualcuno, si accetta ciò che potrebbe succedere conseguentemente, eventualità che nel mio caso corrisponde alla pena di morte. Sarebbe intrigante seguire le leggi della natura. Gli animali si uccidono quotidianamente, rimanendo impuniti, dal momento che non sono frenati né dalla cultura, né dalla morale. E’ anche vero che loro hanno un corredo istintuale molto più ricco del nostro, visto che l’unico obiettivo è la sopravvivenza, mentre noi siamo governati dalle pulsioni, che ci guidano nella quotidianità. Perciò, è giusto distinguere noi da loro, dato che “fatti non fummo per viver come bruti”.

Insomma, in queste mie ultime ore, cosa dovrei fare? Pentirmi? Lo faccio sin dal secondo in cui la mia rabbia mi ha condotto ad infilare, con cieca violenza, la lama nel ventre di quel malcapitato. Ma non serve a niente, se non a conservare una minima speranza di assoluzione del mio incancellabile peccato. Nessuno cambierà la mia condanna, nessuno cancellerà cosa è stato. Da quel momento non faccio altro che pensare al fatto che, in realtà, siamo tutti malati terminali: la diagnosi viene fatta già con il nostro primo respiro. L’unica, vera malattia con mortalità sicura è la vita. Appena veniamo al mondo, la grande clessidra del tempo deposita sul fondo il primo granello di sabbia dorato. Siamo solo corridori, anzi, maratoneti in una gara a cui è obbligatorio iscriversi, arrancando solo in avanti, senza possibilità di visione periferica o cambi di direzione.

Una spiegazione al perché del mio gesto potrebbe essere, parafrasando, questa: ero stanco di partecipare a questa nevrotica corsa e stufo di far parte di un sistema alienante che convoglia verso il becco di un imbuto, verso una meta decisa da altri.
D’altronde, mica ho deciso io di morire. Gli altri lo hanno fatto per me, come se la soluzione al problema fosse questa. Si dice che le erbacce vadano sradicate con decisione ed è questo che sarà fatto di me. Mi son sentito come il protagonista di quel film uscito qualche mese fa, di Chaplin, dal titolo “Tempi moderni”. La mia vita è cambiata dopo la visione quella pellicola, soprattutto della sequenza in cui il protagonista viene risucchiato da una macchina alla quale lavora, arrivando a strisciare tra gli ingranaggi.
In quel momento, una stritolante angoscia mi si legò al colletto della camicia, tanto da costringermi a sganciare il primo bottone, oltre che ad allentare il nodo della cravatta, per provare a fermarla.
La magia della nuova arte è questa: il saper catturare, permettendo la massima empatia tra spettatore e protagonista.
Che peccato non poter assistere alla sua evoluzione…

Forse la cosa che più mi turba è questa, ossia sapere che il mondo proseguirà la sua secolare storia anche senza di me, ennesima, anonima, futile, goccia nell’oceano. Il sole sorgerà, il vento soffierà, la luna splenderà, ma io non sarò qui a godermi lo spettacolo. In questi giorni ho pensato che sarebbe stato meglio non nascere affatto, non conoscere tanta bellezza con la certezza di non poterla più contemplare. Siamo destinati al dolore. O soffriamo o facciamo soffrire, spesso entrambe le cose. Da quando sono uscito dalla proiezione è come se le mie orecchie si fossero sintonizzate su due suoni differenti: una sullo scorrere incessante, infallibile, impassibile delle lancette, consapevole che il tempo non fa sconti; l’altra sul metallico rumore delle macchine che usiamo sul posto di lavoro. Il silenzio, purtroppo, è tornato solo con il grido strozzato della mia vittima.

Quell’urlo è stato come una pietra scagliata contro la vetrata della mia vita. Non potevo far altro che osservare passivamente le schegge dell’immagine, certo che non si sarebbe mai ricomposta.
Chissà se in futuro sarà offerta una seconda possibilità, con l’eliminazione della pena capitale. Magari, più avanti, le persone potranno autogestirsi, decidendo liberamente quando poter vivere e, in determinati casi, quelli più disperati, quando poter morire. Sono le prime ore del giorno, il mio ultimo giorno. Il sole, puntuale, riscalda l’aria; il vento, leggero, accarezza ogni cosa, animata e non; la luna, risplendente, inizia a sparire.

Spero che mi sia concesso di portare con me qualche ricordo e, se così fosse, stringerei a me quelli che mi hanno fatto sentire realmente vivo. La felicità che inonda il sangue sapendo che l’hai ricavata dalla semplicità, da quel che solo tu vedi come speciale, quando per altri non è niente: la copertina del mio libro preferito, il fotogramma che più ho apprezzato nel cinema, la fotografia della mia amata, il sorriso dei miei genitori, il calore umano dei nonni, il sostegno degli amici. Terrei con me la certezza di non esser stato di passaggio ed etereo, ma concreto e rilevante. Mi porterei dietro qualcosa che potrebbe darmi la sensazione netta, quasi corporea, del fatto che, almeno per qualche istante, posso dire di aver vissuto davvero.
Sono costretto ad aggrapparmi a questo brandello del tessuto della speranza. Non chiedo di perdonarmi, né di capirmi; chiedo solo di non esser più giudicato, di lasciarmi andare senza dita puntate contro. La mia vita termina qui, la vostra va avanti. Voi che potete, godetevela, perché il “nemico” sono io. Con oggi sarò sconfitto ed i “buoni” vinceranno ancora. Sappiate solo che se passerete il vostro tempo a ricordarmi, a maledirmi, il male, in realtà, si concretizzerà nel vostro specchio.

Edoardo Elia Sartini.