Philippe Leon è un personaggio poliedrico a trecentosessanta gradi. Meglio, un artista che per anni ha preferito vivere all’ombra dei suoi successi anziché mettersi in evidenza come avrebbe meritato.
La sua creatività, frutto di un connubio perfetto tra fantasia e arte, non si è limitata a porre firme su canzoni importanti interpretate da noti cantanti e cantautori.
Leon, come ascolteremo, possiede una straordinaria creatività perennemente evolutiva e sorprendente da costituire tessere preziose e inequivocabili di quel mosaico chiamato “Storia”.

D. Maestro Leon è considerato a pieno titolo tra i migliori compositori europei. Quali sono le fonti ispiratrici delle sue canzoni?
R. «La mattina quando mi alzo mi ispiro, magari guardando in generale un pò di TV, a destra e a sinistra, per trarre magari da ciò trasmettono qualche cosa che riesca a colpirmi. Qualche storia d’amore, qualche film strano, qualche disgrazia. Qualcosa di cattivo, qualcosa invece di bellissimo… Una frase… Io parto sempre con una frase. Dalla frase cerco poi la metafora della storia. Poi mi metto al pianoforte oppure alla chitarra in base a quello che mi sento di aver vicino, perché, per me, la chitarra e il pianoforte sono parte integrante della mia creatività». 

D. Ricorda le sue prime canzoni?
R. «Ricordo le mie prime composizioni perché erano le canzoni di quando avevo appena imparato a suonare la chitarra, tantissimi anni fa, quando si faceva due accordi, come era uso di tutti gli altri gruppi. Mi ricordo che scrivevo anche delle cose anche un pò banali. Riascoltando qualcosa dopo tanti anni faccio un sorriso e dico che si vedeva che ero all’inizio e che erano delle cose forse banali». 

D. Cosa l’affascina particolarmente delle sue composizioni musicali?
R. «Mi affascina sempre il modo di descrivere qualcosa che magari non tutti possono decifrare e, quindi, cerco sempre una metafora in quello che scrivo. Mi piace con una parola semplice dire molte cose. Un giornalista mi dice: “Ma il testo è un po’ debole…” Allora io rispondo: “Forse non hai capito bene il testo, ma dentro c’è tanta sostanza”. E quella, secondo me, è la cosa che mi piace, cioè trovare quella metafora che può dare il senso a tutto il testo». 

D. Cantanti e cantautori italiani e stranieri sono stati privilegiati dalle sue canzoni un po’ come il grande autore Cristiano Minellono. Può citarli?
R.«Minellono sicuramente è uno tra i miei preferiti. Ha scritto delle belle canzoni che arrivano direttamente al pubblico. Come Pino Daniele, Franco Battiato. Sono grandi autori che hanno questa capacità di scrivere cose foneticamente carine e che hanno uno spessore testuale. Ecco la loro bravura. Io ho scritto per tanta, tanta gente. Ho scritto per Mina, Celentano, Loredana Berté, Patty Pravo, Giorgia, Alexia… Ho scritto per un’ottantina di cantanti in generale. Ho scritto per Malgioglio, Platinette, Fausto Leali, Toto Cutugno… Ho scritto per tante persone che mi hanno chiesto: “Mi scrivi qualcosa?” E io gli ho risposto: “Sicuramente”. Celentano mi disse: “Mi scrivi qualcosa?” Gli risposi di no. Allora lui prese una mia cover, “I passi che facciamo”, che avevo scritto quarant’anni fa e la incise in ben cinque album. Per me è un onore sapere che Celentano canta una cover di Philippe Leon».

D. Per quindici anni figura, come ha già precisato, anche produttore di Loredana Berté. Può parlarci di questo sodalizio artistico?
R. «Con Loredana fu una scommessa che feci con la Warner Bros. Ricordo che dissi alle maestranze della Warner Bros: “Io firmo un contratto editoriale con voi se mi presentate Loredana Berté”. Il mio sogno era quello di scrivere una canzone alla Berté. Parliamo di trent’anni fa. E loro mi dissero: “Guarda noi questa settimana ti presentiamo alla Berté”. Io pensavo che scherzassero. Invece dopo una settimana mi hanno nuovamente detto: “Guarda, oggi pomeriggio ti incontri con la Berté. Vieni qui nel nostro ufficio alla Warner Bros”. Ho detto: “Va bene”. Mi sono presentato e mi sono trovato questa ragazza, che era di una bellezza incredibile. Parlo dei primi anni Novanta. Lei mi ha detto: “Volevi conoscermi perché hai una canzone per me? “Gli ho risposto: “Sì, ho una canzone per te che si chiama “Kabul” ”. Lei l’ha ascoltata e mi disse che era una cosa molto bella. Era il periodo della guerra in Afghanistan. Poi mi ha detto: “Sì, questa canzone l’ha faccio, un bel rock”. Gli è piaciuto anche il testo e tutto ciò che la caratterizzava, perché all’inizio avevo inserito una radio araba che parlava e poi c’erano questi cannoni… Tutto questo l’aveva affascinata. Poi mi disse subito: “Ma hai anche qualcosa per il Festival di Sanremo? Perché ci sono andata l’anno prima con un pezzo di Pino Daniele “La mia città” (Festival di Sanremo 1991 ndr), ma non ho avuto il successo che meritava questa canzone molto bella”.
In quel momento avevo scritto “Io amici non ne ho” e gli ho detto: “Io ho questa canzone qui”. Ascoltandola mi disse: “Ma questa è la mia vita?”. Perché il testo recita: “Sono solo a casa mia che mi faccio compagnia, io amici non ne ho, ma non ci sto più a guardare le stelle nel cielo”.
Poi anche lei ha messo una parte nel testo e l’abbiamo presentata al Festival di Sanremo nel 1994. Per me fu una cosa molto bella e una cosa che mi ha consentito di entrare proprio in Italia, proprio nel mondo di tutti gli autori italiani, perché avevo fatto questa canzone. Ricordo che Zucchero, a casa sua, abbracciandomi, disse: “Hai scritto un capolavoro!”
Io lavoravo molto di più per la Francia, perché sono andato in Tunisia e quindi la mia lingua madre è il francese e ho sempre scritto in francese. Nel 1972, in America, ricevetti un premio come compositore francese. Nelle mie canzoni ho sempre avuto una frase. Quello che conta, ripeto, è sempre la frase. Io ho conquistato Mina dicendo: “Sono le tre e penso a te, bocca di miele”. Quelle parole “bocca di miele” l’aveva affascinata. E fu il primo pezzo per Mina».

D. Può parlarci della collaborazione con Mina?
R. «Con Mina la collaborazione è stata a distanza. Mi disse: “Mandami qualcosa che la ascolto e se mi piace la faccio”. Di solito non è così facile, perché prima di entrare nel suo mondo lei deve capire chi sei e cosa non fai. Io sono stato tanti anni socio con Paolo Limiti, che ha scritto una settantina di canzoni per Mina. Quando con Paolo scrivevo, magari io la musica e lui il testo, che a lei magari non piaceva, la cosa non passava. Poi è venuto a mancare Paolo e ho ancora questa strada aperta con Mina. Quando io scrivo qualcosa che mi sembra che può andar bene alle sue corde – perché lei guarda molto, molto il testo come tutti i cantanti in generale -, glielo invio. A volte posso mandargli un pezzo che non la convince e mi dice: “Non sono convinta”. Però, quando scrivo una canzone c’è sempre chi la canta». 

D. Maestro, nasce compositore di canzoni ma nel corso della sua vita il suo pentagramma ha assunto le sembianze anche di una tavola da colorare e la sua penna di un pennello raffinato. Come spiega questa mirabile trasformazione artistica?
R. «Sinceramente sono partito come un pittore. Quando ero giovane facevo il pittore e ho cominciato adesso a rifare il pittore. Faccio della pop-hard, che è una pittura un po’ spinta, e faccio anche la pop-art, qualcosa di sofisticato. Essendo una persona che crea musica, un testo e riempie un pentagramma, anche se faccio della pittura non verrò criticato. In effetti fino ad oggi non sono stato criticato…».

D. Cosa ci dice della formazione “Banda Leon”?
R. «Ho deciso di allargare la famiglia con la formazione della “Banda Leon”. Si tratta appunto di una famiglia allargata per il fatto che ci sono diversi artisti, dalla scultrice Linda Edelhoff, al bassista Fabio Colasante e a Luca Rustici alla chitarra. Alcune sere fa ho conosciuto un ragazzo cubano bravissimo e gli ho detto “ok, quindi puoi venire a fare lo spettacolo con noi”. Le nostre esibizioni sono uno spettacolo allungato. È stata un’idea che mi ha consentito di formare la “Banda Leon”». 

D. Leggendo alcune sue biografie sui canali social siamo indotti a definirla “un artista eclettico pienamente creativo”, concorda?
R. «Penso di sì. Ho sempre avuto questa questa follia di poter fare un po’ di tutto. Magari non sono bravo in tutto, ma comunque faccio tante cose. Ecco perché mi è venuta in mente la Banda Leon». 

D. Maestro, mentre la ringraziamo per il tempo che ci ha concesso per rivolgerle le nostre domande, desideriamo concludere parlando di una sua ulteriore e toccante iniziativa a favore degli animali abbandonati, soprattutto dei cani. Un suo video presente sul web dal titolo “L’abbandono” non può farci rimanere insensibili a questa realtà, ma dovrebbe indurre a riflettere molte persone, non le sembra?
R. «L’ho fatto proprio per questo. Formando la Banda Leon sono partito affrontando anche una situazione molto molto importante come quella dell’abbandono dei cani».

D. …eppure un cane non abbandonerebbe mai il suo padrone…
R. «Un proverbio arabo dice: “Se uno dà da mangiare a un cane per tre giorni, il cane si ricorderà minimo per tre anni di lui. Se invece un uomo dà da mangiare a un uomo per tre anni, l’uomo si ricorderà soltanto tre giorni di lui in futuro”. Questo video sarà per tutto l’anno. A settembre-ottobre prossimi usciremo con il disco della Banda Leon dal titolo “A sa maman”, che ho realizzato e che sono canzoni normali e prima dei nostri spettacoli porterò e porteremo sempre il video dell’abbandono».

D. In quali modi è possibile sostenere il suo “video”?
R. «Basta guardarlo e non abbandonare mai un cane. Se si vede un cane abbandonato, bisogna portarlo in un canile, se non si è in grado di tenerlo. Non c’è una questione che uno debba far qualcosa più della logica. Basta segnalare il cane abbandonato al proprio comune oppure a un canile. Se poi qualcuno nella vita vuol fare qualcosa ad un canile del suo territorio, lo può fare volentieri, per esempio».