Nel giro di un mese o due le scuole inizieranno a mettere in piedi il complesso meccanismo dell’organizzazione delle gite, che solitamente vengono proposte nei Consigli di classe di ottobre ma avvengono tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera. È un buon momento per partire perché il primo quadrimestre è finito, gli impegni sono limitati e la bassa stagione consente di ottenere preventivi convenienti dalle agenzie di viaggi. Negli ultimi anni, dopo la pandemia, l’organizzazione si è fatta più difficile, ci sono molte più regole e restrizioni: ma la gita resta l’evento più atteso da tutti i ragazzi, e spesso gli insegnanti non se la sentono di rinunciarci, nonostante la fatica di organizzarla.

Due parole meriterebbe, se uno avesse voglia di pensarci (ma di solito si fa finta di nulla) anche la grande responsabilità che una gita comporta per gli accompagnatori, che secondo la legge sono responsabili 24 ore su 24 dei loro studenti; e purtroppo la cronaca ci ricorda tanti fatti terribili successi in passato, per cui i docenti hanno subito conseguenze pesanti per gesti sconsiderati commessi dai loro ragazzi (senza contare il senso di colpa, se qualcuno si fa male o peggio). Se si decide di partecipare a una gita bisogna riporre una grande fiducia nella propria classe, stabilire delle regole e parlare chiaro; ma soprattutto, secondo me, bisogna scegliere quando è il caso di uscire da scuola e quando non lo è.

Non organizzo mai niente con classi particolarmente agitate, o che non conosco; e questo, fino a ora, mi ha permesso di godermi il bello delle gite limitando al massimo i rischi. Che comunque ci sono, ecco perché in parte un docente che va in gita coi suoi ragazzi si affida alla sorte.

Ma qual è il valore pedagogico delle gite, oggi che molti ragazzi viaggiano con le loro famiglie e fanno esperienze che cinquant’anni fa magari solo la scuola poteva offrire? L’aspetto più importante, secondo me, è che un’uscita consente di conoscere i propri studenti sotto quel profilo umano che spesso in classe rimane appannato, tra una verifica e un’interrogazione; c’è chi porta una chitarra, chi fa il buffone sul pullman, chi si lascia andare a confidenze, chi trova il coraggio di fare l’imitazione del profaccompagnatore; e anche noi docenti siamo meno formali, più disposti al gioco e alla chiacchierata.

Le gite rinsaldano il legame di fiducia reciproca che ci deve essere tra studenti e docenti, in un contesto meno rigido di quello scolastico: e anche questo è un modo per imparare, forse addirittura più efficace di quello tradizionale. Capacità di osservazione, curiosità, responsabilità, autonomia: sono tutti aspetti che una mattinata in classe talvolta non fa emergere appieno, ma un’escursione sì. E poi perché no, una gita può rappresentare un premio, un messaggio che gli insegnanti mandano alla loro classi: siamo contenti di voi, e per questo ve la siete meritata.

Ho moltissimi bei ricordi, legati alle gite che ho fatto: una terza Alberghiero di tanti anni fa a Barcellona, una quinta Biotecnologie a Parigi un attimo prima che il Covid ci chiudesse tutti in casa (era strano, allora, girare per le stazioni e vedere le prime mascherine sui volti della gente), un’altra quinta lo scorso anno a Napoli, quando sembrava che la meta di tutte le gite d’Italia fosse Napoli, e infatti la città era piena di ragazzi e ragazze da ogni regione. Ogni tanto riguardo le foto di gruppo che ci siamo fatti scattare: quella davanti agli scavi di Pompei, o la sera sotto la torre Eiffel illuminata. I volti sorridenti, i sacchetti dei souvenir, le due dita a formare una V.

E ogni volta penso, immancabilmente, che il mio è il mestiere più bello del mondo.

Stefania Berti